Il Virgilio romano, manoscritto altomedievale delle opere di Virgilio

E’ noto con questo nome,  a partire dal 1521, un manoscritto attualmente conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (Cod. Vat. Lat. 3867) che potete consultare online da questo link. Si tratta di un codice pergamenaceo attualmente composto da 309 fogli ma si ritiene che in origine ne avesse circa 411, nel quale si conserva in maniera frammentaria una delle più antiche copie illustrate delle Bucoliche, delle Georgiche e dell’Eneide.

Per comprenderne la preziosità va detto che si tratta di uno dei più antichi manoscritti virgiliani e uno dei tre manoscritti di letteratura classica miniati, insieme al Virgilio vaticano e all’Ilias Picta: la sua importanza per la storia dell’arte è eccezionale e fondamentale.
È stato scritto in una data imprecisata tra V e VI secolo con una grafia che all’epoca veniva utilizzata per manoscritti di pregio, conosciuta col nome di capitale rustica. La monumentalità e l’eleganza della scrittura unite ad un ricchissimo apparato illustrativo fanno di questo codice un oggetto di lusso, un prodotto che rappresenta uno status symbol. Infatti, la quantità di errori presenti nel testo e il fatto che questi siano stati corretti non prima di tre secoli dopo la redazione del codice in età carolingia, fanno supporre che fosse un prodotto elegante realizzato per far mostra in una collezione libraria di lusso nel quale non poteva mancare una copia di Virgilio, piuttosto che realmente consultato. Le ipotesi sulla localizzazione dello scriptorium  di origine del Virgilio Romano sono molteplici e coprono un’area geografica che va dalla Siria alla Francia; tuttavia, ad oggi, la maggior parte degli studiosi ritiene che il testo sia stato redatto nella Ravenna di VI secolo.

 Titiro e Melibeo, dalla prima egloga delle Bucoliche.
Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi
silvestrem tenui musam meditaris avena

Folio 1r: Titiro e Melibeo, dalla prima egloga delle Bucoliche.

Inquadramento storico

Il periodo compreso tra i secoli IV e VI fu un momento di profondi mutamenti politici, sociali, economici e culturali. Tra il 313, con l’editto di Costantino, e il 380, con quello di Teodosio, il Cristianesimo divenne l’unica religione di stato.
Nel 330 era stata fondata la nuova Roma, Costantinopoli, con l’intento di spostare verso Oriente il fulcro dell’Impero.
Nel 410 Roma, che per mille anni era stata il cuore pulsante del Regno e dell’Impero, venne saccheggiata dai Visigoti di Alarico, il che colpì il sentimento generale e contribuì all’impulso della vecchia aristocrazia di migrare verso Oriente.
Infine, nel 476 Odoacre depose Romolo Augusto, l’ultimo imperatore d’Occidente, sancendo così di fatto la caduta ufficiale di quella parte dell’Impero. Si assiste alla formazione di una nuova aristocrazia.

Uno dei tre ritratti di Virgilio nel manoscritto "Virgilio Romano"
Uno dei tre ritratti di Virgilio nel manoscritto “Virgilio Romano”

Dal rotolo al codex

Da un punto di vista della trasmissione della cultura, tra III e IV secolo si registra un avvenimento epocale: il passaggio dal rotolo al codice.
Durante tutta l’epoca romana, come precedentemente all’interno di altre culture, la redazione, conservazione e lettura dei testi avveniva su rotoli di papiro che venivano scritti su colonne e la cui fruizione avveniva srotolando il cosiddetto volumen con una mano e arrotolandolo con l’altra, lasciando visibili solo una o due colonne di scrittura. La durata della “vita” di un rotolo non superava in media i duecento anni, dopodiché si procedeva con una nuova redazione e con la sostituzione del vecchio testo.
A partire dal III secolo invece, l’affinamento della produzione della pergamena ricavata attraverso la concia della pelle ovina o vaccina, permise l’utilizzo sempre più ampio di un materiale nettamente più resistente. Le pagine di pergamena venivano cucite insieme a formare i codices che hanno l’aspetto degli odierni libri.

Le prime menzioni di un codex pergamenaceo l’abbiamo all’interno dell’opera Apophoreta di Marziale, datata al I secolo. In essa l’autore elenca una serie di oggetti da regalare in occasione dei Saturnalia, dedicando a ciascun oggetto un distico descrittivo. Tra i regali suggerisce le proprie opere in forma di “libricino”

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Lib. I, 3 ad Lectorem, ubi libri venales (trad. Vivaldi)

Il passaggio dal rotolo al codice, in un’epoca in cui la cultura era diventata di matrice sostanzialmente cristiana, comportò una precisa scelta dei testi che “meritavano” di essere copiati e tramandati. I Padri della Chiesa, ad esempio, si scagliarono in feroci invettive contro i testi di natura prettamente pagana, alcuni dei quali, dunque, subirono una sorta di damnatio memoriae, con l’esito di essere ad oggi irrimediabilmente perduti. Delle 44 opere di Aristofane per esempio ne sono giunte a noi soltanto 11, così come i testi di Menandro, calati di fama, sono giunte pochissime copie, quasi tutte dovute a ritrovamenti egiziani.

Nonostante tale stato delle cose, le scuole di grammatica che rimasero attive continuarono i loro insegnamenti sulle basi delle grandi autorità del passato, di cui spesso troviamo echi e citazioni. Virgilio, ad esempio, uno dei massimi autori di I secolo d.C., godette di una enorme fortuna durante tutto il Medioevo e oltre. Molti passaggi dei suoi versi potevano essere interpretati in chiave cristiana, tanto che Dante, che lo definisce “autorità suprema fino ai limiti dell’eterno” e lo sceglierà come sua guida nel viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio.

Banchetto di Enea e Didone dal "Virgilio romano"
Banchetto di Enea e Didone dal “Virgilio romano”

Il manoscritto

Le carte superstiti prive di illustrazioni contengono ognuna 18 versi. Sopravvivono, nel complesso, 19 immagini miniate realizzate a partire da modelli tardo-antichi.
Lo stile delle Bucoliche, differisce sostanzialmente dalla decorazione degli altri due testi. Infatti, fatta eccezione per la prima miniatura, che rappresenta gli arcadi Titiro e Melibeo e che supera i margini della pagina, tutte le altre immagini stanno entro una cornice, all’inizio o alla fine dell’ecloga di riferimento, e ripetono due modelli: pastori immersi in un paesaggio agreste che discutono, oppure il ritratto dell’autore che è raffigurato sempre frontalmente seduto con un rotolo in mano.

La decorazione miniata degli altri due testi, invece, fu realizzata in totale indipendenza tra le figure dello scriba e quello dell’illustratore. Infatti le miniature sono tutte a piena pagina e realizzate su carte che non dovevano ricevere alcun testo sulla faccia della pergamena senza illustrazione. Considerata la monumentale dimensione delle scene rappresentate (ognuna ha un lato di circa 22 cm), si può parlare più che di miniature, di vere e proprie pitture.

Delle Georgiche sopravvivono solamente due miniature a piena pagina su due pagine consecutive, quasi a formare due valve di un dittico. Infatti le scene sono strettamente collegate e comunicano l’una con l’altra. E’ rappresentata una sorta di concerto campestre in cui, immersi nella campagna, tre pastori con i rispettivi animali al pascolo, si intrattengono suonando e conversando.

La monumentalità dell’apparato illustrativo dell’Eneide dimostra l’eccezionale importanza che questo testo ricopriva ancora nella società del V-VI secolo. La quasi completa assenza di una precisa descrizione spaziale, la volontà di “non rappresentare le cose di per sé, ma per l’idea che incorporano”, la scelta di trasmettere sentimenti religiosi solo a personaggi “neutri”, positivi o che non fanno diretti richiami al paganesimo, dimostrano che lo scriptorium per quanto importante che fosse, era ormai probabilmente orientato alla produzione di testi di matrice cristiana. In ogni caso la nuova religione influì sull’atteggiamento di chi si occupò dell’illustrazione di questo testo. Pensiamo al timore con cui il miniatore si è accostato alla rappresentazione del nudo; pensiamo al fatto che solo il “pio” Enea è degno di replicare il gesto cristiano dell’orante.

Enea in atteggiamento orante, Virgilio romano, folio77v
Enea in atteggiamento orante, Virgilio romano, folio77v

Ci troviamo dunque di fronte al prodotto di un periodo che rappresenta il passaggio dall’antichità al medioevo. Un codice di prestigio destinato, come abbiamo visto, più alla tesaurizzazione che alla fruizione e che godette di grande fortuna. Prodotto verosimilmente in uno scriptorium ravennate nel VI secolo in un momento in cui la città attraversava un periodo di particolare fioritura economica e culturale, intorno al IX secolo doveva trovarsi nella biblioteca dell’abbazia parigina di Saint-Denis dove rimase almeno fino al XIII. In questo secolo, infatti si datano alcune note che sono apposte su due carte del testo. Infine, nel 1475 il nostro codice compare in un elenco di manoscritti presenti nel Palazzo Vaticano dove, cambiando collocazione nel corso del tempo, è rimasto fino alla creazione della Biblioteca Apostolica Vaticana in cui si trova a tutt’oggi.

Liberamente tratto e ampliato da Finestre sull’arte

Bibliografia 

  • Walther, Ingo F. and Norbert Wolf. Codices Illustres: The world’s most famous illuminated manuscripts, 400 to 1600. Köln, Taschen, 2005.
  • Kurt Weitzmann. Late Antique and Early Christian Book Illumination. New York: George Braziller, 1977.
  • Horst Blanck, Il libro nel mondo antico, Ed. Dedalo, 2008
  • Vergilius Romanus (Codice Vaticano Latino 3867 conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana), a c. di Italo Lana, Milano-Zurich 1986
  • C. Bertelli, Le illustrazioni del Virgilio Romano nel contesto storico e artistico, in Wolvinio e gli angeli. Studi sull’arte medievale, Mendrisio Academy Press 2006
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