Candelora, Lupercalia e Imbolc

Purificazione e candele nella tradizione ebraica e cattolica

Presentazione di Gesù al tempio. Giotto: Cappella degli Scrovegni a Padova

Presentazione di Gesù al tempio. Giotto: Cappella degli Scrovegni a Padova

Secondo il calendario cattolico il 2 febbraio è la festa della Presentazione al Tempio di Gesù  e della Purificazione di Maria Vergine; secondo l’usanza ebraica infatti, una donna era considerata impura del sangue mestruale per un periodo di 40 giorni dopo il parto di un maschio e doveva recarsi al Tempio per purificarsi: il 2 febbraio cade appunto 40 giorni dopo il 25 dicembre, giorno della nascita di Gesù.

« Quando una donna sarà rimasta incinta e darà alla luce un maschio, sarà immonda per sette giorni; sarà immonda come nel tempo delle sue regole. L’ottavo giorno si circonciderà il bambino. Poi essa resterà ancora trentatré giorni a purificarsi dal suo sangue; non toccherà alcuna cosa santa e non entrerà nel santuario, finché non siano compiuti i giorni della sua purificazione »   (Levitico 12,2-4)

In base a questo significato il nome popolare della Candelora, deriverebbe dalla benedizione che tradizionalmente viene eseguita sulle candele, simbolo di Cristo “luce per illuminare le genti”, come il bambino Gesù venne chiamato dal vecchio Simeone al momento della presentazione al Tempio di Gerusalemme, che era prescritta dalla Legge giudaica per i primogeniti maschi.

A Roma, ai tempi di Sergio I (687-701) la festa, chiamata “giorno di Simeone”, era celebrata con una processione da S. Adriano a S. Maria Maggiore, analoga a quelle delle altre feste della Vergine.
Tale unione e il nome di Purificazione che la festa porta nel Sacramentario Gelasiano, indicano che essa era entrata nel ciclo delle feste mariane.
L’uso di portare le candele nelle processioni notturne e la loro benedizione è attestata dal sec. X (Sacramentario di Corbia); a Roma, ancora nel sec. XII, tale benedizione era impartita in Santa Martina al Foro.
Il nome popolare Candelora deriverebbe quindi dal latino candelorum “[festa] delle candele”.
Alcune ipotesi farebbero risalire la festa e la processione ai tempi di papa Gelasio (492-496), che l’avrebbe introdotta per sopprimere la fiaccolata pagana dei Lupercali dei 15 febbraio. In origine infatti questa festa veniva celebrata il 14 febbraio, 40 giorni dopo l’Epifania, giorno nel quale si celebrava il Natale in Oriente, e la prima testimonianza al riguardo ci è data da Egeria nel suo Itinerarium Egeriae (cap. 26).
Appunto col nome di “quaresima dopo l’Epifania”, e quindi il 14 febbraio, appare in uso tale festa a Gerusalemme alla fine del sec. IV (Peregrinatio Silviae).
Giustiniano la introdusse nel 542 a Costantinopoli fissandola al 2 febbraio; il nome della festa era ‛Υπαπαντή, cioè “incontro” con Simeone al tempio.
L’uso delle candele, di cui parla Egeria: “Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima” (Itinerarium 24, 4), ha forte somiglianza con le antiche fiaccolate rituali che si facevano nei Lupercali, antichissima festività romana che si celebrava proprio a metà febbraio.

Pur considerando la variazione di data dal 15 al 2 febbraio, sï può tuttavia notare che la Purificazione venne a cadere di fatto nel mese che prese il nome dalle februa o purificazioni (lupercaliche). Poiché la processione era di penitenza, ancora adesso la funzione della Candelora è in paramenti violacei, come quelli della Quaresima.

Lupercali

Lupercalia (Domenico Beccafumi (1486 – 1551)

Lupercalia di Domenico Beccafumi (1486 – 1551)

La sovrapposizione del rituale di Purificazione, sebbene affiancato dall’evento giudaico-cristiano della Presentazione al tempio è proprio l’anello di congiunzione con i Lupercalia romani.
Questa era una festività che si celebrava nei giorni nefasti di febbraio, mese purificatorio , in onore del dio Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall’attacco dei lupi.

Secondo un’altra ipotesi, avanzata da Dionisio di Alicarnasso, i Lupercalia ricordano il miracoloso allattamento dei due gemelli Romolo e Remo da parte di una lupa che da poco aveva partorito; Plutarco dà una descrizione minuziosa dei Lupercalia nelle sue Vite parallele. I Lupercalia venivano celebrati nella grotta chiamata appunto Lupercale, sul colle romano del Palatino dove, secondo la leggenda, i fondatori di Roma, Romolo e Remo sarebbero cresciuti allattati da una lupa.

La festività si svolgeva a metà febbraio, con il suo culmine il 15 febbraio, perché questo mese era il culmine del periodo invernale nel quale i lupi, affamati, si avvicinavano agli ovili minacciando le greggi. Era quindi situata quasi alla fine dell’anno, considerando che i Romani festeggiavano il nuovo anno il 1º marzo.

Le origini di tale festività sono talmente antiche da essere avvolte nella leggenda persino per Dionisio di Alicarnasso e Plutarco, che ne fanno risalire la nascita al personaggio mitologico Evandro, figlio del dio Mercurio e della ninfa Carmenta.

Rappresentazione di Romolo e Remo allattati dalla lupa, circondati dal tevere e dal Palatino. Panello da un altare in marmo dedicato alla coppia divina di Marte e Venere. (98-117 d.C.), Riusato sotto Adriano come basamento per una statua di Fauno (Piazzale delle Corporazioni in Ostia Antica)

Rappresentazione di Romolo e Remo allattati dalla lupa, circondati dal Tevere e dal Palatino. Panello da un altare in marmo dedicato alla coppia divina di Marte e Venere. (98-117 d.C.), Riusato sotto Adriano come basamento per una statua di Fauno (Piazzale delle Corporazioni in Ostia Antica)

Anche Ovidio fa risalire la festa a tempi mitologici: al tempo di re Romolo vi sarebbe stato un prolungato periodo di sterilità nelle donne. Uomini e donne si recarono perciò in processione fino al bosco sacro di Giunone, ai piedi dell’Esquilino, e qui si prostrarono in atteggiamento di supplica. Attraverso lo stormire delle fronde, la dea rispose che le donne dovevano essere penetrate (inito, che rimanda a Inuus, altro nome di Fauno) da un sacro caprone sgomentando le donne, ma un augure etrusco interpretò l’oracolo nel giusto senso sacrificando un capro e tagliando dalla sua pelle delle strisce con cui colpì la schiena delle donne e dopo dieci mesi lunari le donne partorirono.

La festa era celebrata da giovani sacerdoti chiamati Luperci, seminudi con le membra spalmate di grasso e una maschera di fango sulla faccia; soltanto intorno alle anche portavano una pelle di capra ricavata dalle vittime sacrificate nel Lupercale.

I Luperci, diretti da un unico magister, erano divisi in due schiere di dodici membri ciascuna chiamate Luperci Fabiani (“dei Fabii”) e Luperci Quinziali (Quinctiales, “dei Quinctii”), ai quali per un breve periodo Gaio Giulio Cesare aggiunse una terza schiera chiamata Luperci Iulii, in onore di sé stesso. Secondo Dumézil è probabile che in origine le due schiere fossero formate dai membri delle gentes dalle quali prendono il nome (cioè i Fabii e i Quinctii). Secondo Mommsen un indizio potrebbe essere il fatto che il nome Kaeso si trova soltanto tra i membri di quelle due gentes e sarebbe collegato al februis caedere, cioè al tagliare (caedere) le strisce (februa) dalla pelle delle capre sacrificate.

Il Fauno Barberini epoca ellenistica 220 a.C. circa. Gliptoteca di Monaco

Il Fauno Barberini epoca ellenistica 220 a.C. circa. Gliptoteca di Monaco

Sulla base di alcuni passi di Livio, si è ritenuto generalmente che i luperci Fabiani fossero originari del Quirinale e i Quinziali del Palatino, ma ciò è contestata da Dumézil, per il quale non ci sono sufficienti motivi per trarre questa deduzione, anche perché i riti dei Lupercalia sono strettamente legati soltanto al colle Palatino e non anche al Quirinale.

In età repubblicana i Luperci erano scelti fra i giovani patrizi ma da Augusto in poi la cosa fu ritenuta sconveniente per loro e ne fecero parte solo giovani appartenenti all’ordine equestre.

Plutarco riferisce nella vita di Romolo che il giorno dei Lupercalia, venivano iniziati due nuovi luperci (uno per i Luperci Fabiani e uno per i Luperci Quinziali) nella grotta del Lupercale; dopo il sacrificio di capre (si ignora se una o più di una, se di genere maschile o femminile: secondo Quilici un capro) e, pare, di un cane (che per Dumézil è cosa normale se i Luperci sono “quelli che cacciano i lupi”), i due nuovi adepti venivano segnati sulla fronte intingendo il coltello sacrificale nel sangue delle capre appena sacrificate. Il sangue veniva quindi asciugato con lana bianca intinta nel latte di capra, al che i due ragazzi dovevano ridere.

Questa cerimonia è stata interpretata come un atto di morte e rinascita rituale, nel quale la “segnatura” con il coltello insanguinato rappresenta la morte della precedente condizione “profana”, mentre la pulitura con il latte (nutrimento del neonato) e la risata rappresentano invece la rinascita alla nuova condizione sacerdotale.

Venivano poi fatte loro indossare le pelli delle capre sacrificate, dalle quali venivano tagliate delle strisce, le februa o amiculum Iunonis, da usare come fruste. Dopo un pasto abbondante, tutti i luperci, compresi i due nuovi iniziati, dovevano poi correre intorno al colle saltando e colpendo con queste fruste sia il suolo per favorirne la fertilità sia chiunque incontrassero, ed in particolare le donne, le quali per ottenere la fecondità in origine offrivano volontariamente il ventre, ma al tempo di Giovenale ai colpi di frusta tendevano semplicemente le palme delle mani.

In questa seconda parte della festa i luperci erano essi stessi contemporaneamente capri e lupi: erano capri quando infondevano la fertilità dell’animale (considerato sessualmente potente) alla terra e alle donne attraverso la frusta, mentre erano lupi nel loro percorso intorno al Palatino. Secondo Quilici, la corsa intorno al colle doveva essere intesa come un invisibile recinto magico creato dagli scongiuri dei pastori primitivi a protezione delle loro greggi dall’attacco dei lupi; la stessa offerta del capro avrebbe dovuto placare la fame dei lupi assalitori. Tale pratica inoltre non doveva essere stata limitata al solo Palatino ma in epoca preurbana doveva essere stata comune a tutte le località della zona, ovunque si fosse praticato l’allevamento ovino.

Imbolc

Alla pastorizia e agli armenti è legata anche la festività di Imbolc (o anche Oimelc, o Imbolic) antica festività celtica del culmine dell’inverno, che cadeva tradizionalmente il 1º febbraio, nel punto mediano tra il solstizio d’inverno e l’equinozio di primavera. La celebrazione iniziava tuttavia al tramonto del giorno precedente, in quanto il calendario celtico faceva iniziare il giorno appunto dal tramonto del sole.

Il termine Imbolc in gaelico significa “in grembo”, in riferimento alla gravidanza delle pecore, così come Oimelc sta per “latte ovino”, a indicare che in origine si trattava di una festa legata alle pecore da latte. In questo periodo venivano infatti alla luce gli agnellini e le pecore producevano latte. Il latte fresco, il formaggio, il burro e il siero di latte, per non parlare dei pasticci fatti con le code mozzate degli agnelli, costituivano spesso la differenza tra la vita e la morte per le persone anziane e i bambini, durante il gelo pungente di febbraio. La festività celebrava la luce, che si rifletteva nell’allungamento della durata del giorno, e nella speranza per l’arrivo della primavera. Era tradizione celebrare la festa accendendo lumini e candele.

Raffigurazione di Santa Brigida con la caratteristica croce di giunchi

Raffigurazione di Santa Brigida con la caratteristica croce di giunchi

La festa pagana era sotto gli auspici della dea Brígit. Divinità celtica, madre di Brian, Iuchair e Iucharbar. È dea della ‘conoscenza’ di carattere miracoloso e magico (come Odino nella mitologia nordica); a questa sapienza si associa il dominio della poesia ed è connesso il suo patrocinio sulle arti, manuali e spirituali; taluni aspetti del suo culto la mostrano dea della fertilità e del fuoco. Nelle iscrizioni della Britannia appare con il nome di Brigantia, si trasformò, con la cristianizzazione, nella ricorrenza di Santa Brigida.
Questa, vissuta in Irlanda nel V secolo, è patrona dell’Irlanda assieme a San Patrizio. Nella sua biografia dai tratti leggendari ritornano elementi miracolosi (quasi magici) di guarigione e avviene la fusione con i tratti della divinità pagana cui si sostituì nel culto popolare. Famosa e ancora molto diffusa la Croce di Santa Brigida, piccola croce di giunchi attraverso la pratica di intrecciare la quale, la Santa e badessa irlandese, rasserenò e convertì un moribondo. In talune regioni, il suo culto conserva ancora sopravvivenza dell’antica festa della primavera.

 

Conclusioni
La festività è chiaramente legata alle più ancestrali tradizioni pastorali dell’uomo. L’uscita dalla parte più buia dell’inverno, con le prime avvisaglie di una più prolungata illuminazione solare e la nascita dei primi agnelli del gregge, ne fanno una festa di purificazione dopo l’inverno trascorso al chiuso e al buio (purificazione e “presentazione” al mondo) e nella continuità della vita (fecondazione dei grembi di donne e bestiame).
Come avemmo modo di dire in altre occasioni: in qualunque cosa crediate questo giorno è comunque importante. Festeggiate!

 

Bibliografia:

  • Renato Del Ponte. La religione dei Romani. Milano, Rusconi, 1992.
  • Georges Dumézil. La religione romana arcaica. Milano, RCS Libri, 2001.
  • Lorenzo Quilici. Roma primitiva e le origini della civiltà laziale. Roma, Newton Compton, 1979, pp. 227–228.
  • Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane
  • Ovidio, Fasti
  • Jean Markale, C. Fiorillo, Gianfranco de Turris, Il druidismo: religione e divinità dei Celti, Edizioni Studio Tesi, 1990
  • Elena Percivaldi, I Celti: una civiltà europea, Giunti, 2003
  • Nelida Caffarello, Dizionario archeologico di antichità classiche, Olschki, 1971
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