La cucina è specchio della società.
Nei sec. XIII e XIV compaiono i primi libri di cucina.
Le fonti antecedenti sono scarse. Il documento più antico è un menu del XII sec. riferito alla realtà di Milano: si tratta della lista delle portate di un pranzo offerto dai monaci di un monastero milanese ai canonici della chiesa di San Satiro. Il pranzo è costituito da nove piatti, suddivisi in tre portate, pressoché tutti a base di carne (simbologia religiosa del numero tre nella religione cristiana). È un menu costruito “per accumulo” in cui la varietà delle carni e delle preparazioni ha il fine di soddisfare tutti i gusti. Il menù ci è pervenuto solo perché i canonici, insoddisfatti dell’ospitalità ricevuta, fecero causa al monastero e il testo è riportato nella sentenza conclusiva della controversia.
Fonti storiche molto interessanti sono anche quelle “indirette” come il Decameron di Giovanni Boccaccio, Il Pecorone di Ser Giovanni Fiorentino, Novelle di Giovanni Sercambi e Il Trecentonovelle di Franco Sacchetti. Quest’ultima opera è senz’altro un efficace veicolo per ricostruire le consuetudini di vita della popolazione del basso Medioevo, soprattutto quelle riguardanti l’alimentazione e l’incidenza concreta, quotidiana, che una struttura economico-sociale agricola ebbe sulla vita degli uomini.
Differenze regionali
Le variazioni della dieta su base regionale erano frutto delle differenze climatiche, delle diverse condizioni politiche e delle abitudini locali che variavano all’interno del continente. Anche se le generalizzazioni andrebbero evitate è possibile individuare a grandi linee delle zone in cui certi tipi di cibi erano prevalenti. Nelle isole britanniche, nel nord della Francia, nei Paesi Bassi, nelle aree a prevalenza linguistica tedesca, in Scandinavia e nella regione baltica il clima era in genere troppo rigido per permettere la coltivazione della vite e dell’ulivo. Nel sud il vino era la bevanda più comune sia per i ricchi che per i poveri (anche se il popolo in genere doveva accontentarsi del più economico vino di seconda spremitura), mentre nel nord era la birra la bevanda del popolo e il vino un bene d’importazione e quindi costoso. Gli agrumi (anche se non le varietà più comuni al giorno d’oggi) e il melograno erano comuni nell’area del Mediterraneo. Prodotti come fichi secchi e datteri erano talvolta disponibili anche al nord ma in cucina venivano impiegati con una certa parsimonia.
L’olio di oliva era un ingrediente onnipresente in tutta l’area mediterranea, ma nel nord rimaneva un costoso prodotto d’importazione e si usavano quindi in prevalenza oli di papavero, noce e nocciola come alternative più abbordabili.
Burro e lardo, dopo il terribile periodo della peste nera, iniziarono ad essere molto usati specialmente nelle aree settentrionali e nord-occidentali, in particolare nei Paesi Bassi. Quasi universalmente diffusa nelle cucine delle classi medie e superiori la mandorla, usata soprattutto sotto forma del versatile latte di mandorle, usato come surrogato nei piatti che avrebbero richiesto l’uso di latte o uova; la diversa varietà della mandorla amara sarebbe stata scoperta solo diverso tempo dopo.
La carne è la protagonista principale della cucina medioevale (diversamente da quanto accadeva in epoca romana in cui era il pane ad essere prevalente) perché i trattati di dietetica medioevale, influenzati dalle consuetudini alimentari del mondo germanico, sostengono che è la carne l’alimento che nutre di più.
La carne è un elemento importante nell’alimentazione di tutte le classi sociali ed è presente anche sulle tavole contadine, grazie alla pratica dell’allevamento e della pastorizia.
Anche se tutte le varietà di selvaggina erano molto popolari, perlomeno tra quelli che se le potevano permettere, la maggior parte della carne che veniva consumata proveniva da animali domestici.
La carne bovina non era diffusa come al giorno d’oggi, perché allevare le mandrie era molto impegnativo, richiedeva abbondanti pascoli e grandi quantità di foraggio e buoi e vacche erano considerati molto più utili come animali da lavoro e come produttrici di latte.
I capi che venivano macellati perché vecchi e non più adatti al lavoro non erano particolarmente appetibili e di conseguenza la loro valutazione era piuttosto bassa. Molto più usata era la carne di maiale, dal momento che si tratta di un animale che richiede meno cure e si nutre di alimenti più economici.
I maiali domestici spesso venivano lasciati razzolare liberamente anche nelle città e si nutrivano di ogni tipo di rifiuti organici provenienti dalle cucine, mentre il maialino da latte era considerato una vera leccornia. Molto diffuse erano anche le carni di montone o di agnello, soprattutto nelle zone in cui era più sviluppata l’industria della lana, così come quelle di vitello.
A differenza di quanto oggi accade nella maggior parte del mondo occidentale, tutte le parti dell’animale venivano mangiate, incluse orecchie, muso, coda, lingua e interiora. L’intestino, la vescica e lo stomaco venivano impiegati per rivestire salsicce e salumi oppure venivano utilizzati dai cuochi per dare al cibo forme fantastiche e artificiali come quella di uova giganti. Tra i tipi di carne allora usate ma rare al giorno d’oggi o considerate inadatte all’alimentazione umana c’erano quelle di riccio e di istrice, occasionalmente menzionate in ricettari del tardo Medioevo.
Si mangiava poi un’ampia varietà di volatili tra cui cigni, pavoni, quaglie, pernici, cicogne, gru, allodole e praticamente qualsiasi uccello che potesse essere cacciato. Cigni e pavoni spesso erano addomesticati, ma venivano consumati solo dalla classe più elevata e in effetti apprezzati più per il loro magnifico aspetto (li si usava per creare piatti molto appariscenti da servire in tavola) che per la bontà delle carni. Come succede anche oggi oche edanatre erano animali domestici piuttosto diffusi, ma non raggiungevano la popolarità di cui godeva il pollo, che in pratica era l’equivalente pennuto del maiale.
Curiosamente, si credeva che l’oca facciabianca, una specie nordica e selvatica, non si riproducesse deponendo le uova come gli altri uccelli, ma che nascesse dai cirripedi marini che si trovavano sulle scogliere e di conseguenza era considerata un alimento accettabile per i periodi di penitenza e digiuno.
La carne era un cibo più caro rispetto a quelli di origine vegetale e poteva raggiungere un costo anche quattro volte superiore a quello del pane. Il pesce poteva invece costare anche sedici volte di più, ed era quindi troppo caro anche per le stesse popolazioni costiere. Questo significava che nei giorni di digiuno la dieta, per coloro che non potevano permettersi alternative alla carne e ai prodotti di origine animale come uova e latte, poteva essere piuttosto povera.
Fu solo dopo l’epidemia di peste nera (1347-1352) che uccise quasi un terzo della popolazione europea che la carne diventò un alimento comune anche per le persone più povere. La drastica riduzione di abitanti di molte aree provocò una carenza di manodopera che significò di conseguenza un aumento dei salari. Inoltre vasti appezzamenti di terreno rimasero incolti, rendendoli disponibili per il pascolo, fatto che immise una maggiore quantità di carne sui mercati
Come si cucinava la carne? Sostanzialmente secondo tutte le modalità in uso ancora oggi, ma con una distinzione fondamentale: i bolliti sono tipici della cucina povera perché consentono di utilizzare tutto quello che la preparazione può dare, compreso il brodo, e richiedono una cottura lenta, che si svolge in casa ed è affidata alle donne; mentre gli arrosti sono una prerogativa delle tavole dei signori, rimandano all’idea di pratiche maschili legate al mondo della caccia (legna, fuoco, spiedo, aria aperta).
In sostanza le due tecniche di cottura rinviano a modi simbolici diversi di rappresentare il ruolo ricoperto all’interno della società. (Le fonti materiali che hanno portato a queste conclusioni sono i reperti ritrovati nei siti nobiliari – spiedi – e nelle abitazioni contadine -pentole). Non è possibile per un principe medioevale rappresentare se stesso come un mangiatore di carne bollita… e infatti la “malattia professionale “ della nobiltà è la gotta.
La carne deve essere accompagnata dalle salse. Sono salse magre, a base di erbe, spezie, aceto, vino, agrumi; questi ultimi ingredienti costituiscono una base acida. Lespezie sono prerogativa della cucina ricca, ma non è vero che servissero a coprire il sapore della carne avariata in quanto, come si è visto, sulle tavole dei signori la carne era sempre disponibile, fresca e varia.
Le spezie sono amate dai ricchi signori perché sono costose, danno prestigio, vengono da lontano (addirittura dai luoghi che nella geografia fantastica medioevale si pensava fossero la sede del paradiso terrestre). Sono dunque uno “status symbol” dell’epoca.
Oltre a ciò, i medici del tempo sostengono che sono salutari e fanno bene perché “riscaldano lo stomaco”, e questo in base alla convinzione che la digestione fosse analoga ad un processo di cottura.
La quantità di spezie utilizzate è direttamente proporzionale al grado di nobiltà.
È una vera “follia delle spezie”, tanto che la Chiesa e i moralisti si scagliano contro il loro abuso.
Le salse contadine invece sono a base di erbe (come la nostra salsa verde, ma senza olio).
Tratto centrale del gusto medioevale è la complessità, cioè la tendenza a mettere insieme sapori diversi: “una cucina sintetica” che tende all’agro/dolce/piccante (come la mostarda cremonese che può essere considerata un “fossile” della cucina medioevale).
Il termine è spesso fonte di equivoci, in quanto esso definisce sia la preparazione propriamente detta sia, per rimando al francese moutarde, al condimento più noto in italiano come senape, che condivide la stessa base, essendo entrambi gli alimenti preparati con i semi della stessa pianta
Deriva da mustum ardens, che compare per la prima volta in un testo francese del 1288, alludendo al mosto di vino reso ardente, cioè piccante, dall’aggiunta di farina di grani di senape; in tal modo era possibile conservare un prodotto facilmente deperibile come la frutta. La diffusione di tale alimento nell’Italia settentrionale avviene verso il Seicento; le testimonianze ne associano il consumo alle festività natalizie. La diffusione si ebbe nelle diverse città della pianura Padana: Vicenza, Mantova e soprattutto Cremona, radicandosi in alcune ricette tradizionali.
A conferma dell’antichità della tradizione della mostarda si cita la Secchia rapita del Tassoni (1621), che, nel descrivere i doni a un legato pontificio, menziona (XII, 38) «due cupelle di mostarda di Carpi isquisitissime». Peraltro già un secolo prima, nel 1522, il Berni alludeva alla mostarda nelle sue lettere facete.
Il quantitativo di gocce di senape usualmente varia da dieci a venti per chilogrammo di composto, a seconda della piccantezza desiderata.
Esistono moltissime varietà regionali di mostarda in tutta Italia.
La preparazione dei cibi
Tutti i tipi di cottura prevedevano l’uso diretto del fuoco. I fornelli non furono inventati fino al XVIII secolo e i cuochi dovevano essere capaci di cucinare direttamente sopra al fuoco vivo. Si usavano anche forni ma costruirli era molto costoso e se ne trovavano solo nelle dimore più grandi e nelle botteghe di fornaio. Spesso le comunità medievali avevano un forno la cui proprietà era condivisa, in modo che il pane fosse preparato in forma pubblica anziché privata. Esistevano anche dei forni portatili progettati perché, dopo che il cibo era posto al loro interno, li si seppellisse sotto le braci roventi, mentre altri anche più grandi che si spostavano grazie a delle ruote venivano usati per vendere torte e pasticci lungo le strade delle città medievali. Tuttavia, per la maggior parte delle persone, quasi tutte le cotture si facevano in semplici pentoloni, dal momento che quello era il metodo più efficiente per servirsi del fuoco perché permetteva di non sprecare preziosi liquidi di cottura; zuppe e stufati erano quindi i piatti più comuni.
Complessivamente tutto lascia intendere che i piatti medievali avevano un contenuto di grassi piuttosto elevato, perlomeno quando ci si poteva permettere di avere dei grassi in tavola. La cosa non rappresentava infatti il benché minimo problema in un’epoca di durissimo lavoro manuale, di carestie e in cui le rotondità del corpo erano ampiamente accettate quando non addirittura considerate desiderabili; solo i poveri, i malati e gli asceti dovevano essere magri.
Nelle preparazioni si univa senza alcun problema la frutta alla carne, alle uova e al pesce. La ricetta della Tart de brymlent, un pasticcio di pesce, tratta dal ricettario del XIV secolo Forme of Cury comprende un misto di fichi, uva passa, mele e pere da cuocere con salmone o merluzzo, con prugnesnocciolate da mettere sotto la crosta superiore del pasticcio stesso.
Si credeva importante che il piatto rispettasse le prescrizioni mediche e dietetiche dell’epoca. Questo significa che il cibo doveva essere “miscelato” a seconda della sua natura, combinando nel modo giusto ingredienti, salse e spezie; il pesce era ritenuto di natura fredda e umida quindi si credeva che i metodi migliori per cuocerlo fossero quelli che lo riscaldavano e lo seccavano, come la frittura o il passaggio al forno, oppure la stagionatura con spezie calde e secche. Il manzo era valutato secco e caldo e quindi andava di preferenza bollito. Il maiale, caldo ed umido, doveva essere quindi per lo più arrostito.
Alcuni ricettari suggerivano degli ingredienti alternativi basandosi più sulla loro natura umorale che, come farebbe invece un cuoco contemporaneo, sulla somiglianza dei sapori. Ad esempio si dice che per fare una torta di mele cotogne può andare bene anche il cavolo e in un’altra occasione si dice che le rape possono essere sostituite dalle pere.
Conservazione dei cibi
I metodi di conservazione dei cibi erano sostanzialmente gli stessi che erano stati usati fin dall’antichità, e le cose non cambiarono molto fino all’invenzione della conservazione in scatolette di metallo a tenuta d’aria, avvenuta all’inizio del XIX secolo.
l metodo più semplice e più comune consisteva nell’esporre i generi alimentari al calore o al vento per eliminarne la parte umida e quindi prolungare la durevolezza, se non il sapore, di quasi tutti i tipi di alimento, dai cereali alle carni; l’essiccazione del cibo riduce drasticamente l’attività di vari microrganismi idrofili, che provocano ladecomposizione.
Nei climi caldi, si raggiungeva questo risultato per lo più esponendo il cibo al sole, mentre nei paesi più freddi si sfruttava l’azione del vento (metodo di uso comune soprattutto per la preparazione dello stoccafisso), oppure ci si serviva di forni, scantinati e solai riscaldati. Talvolta si sfruttavano gli stessi ambienti in cui vivevano le persone. Anche sottoporre i cibi ad alcuni procedimenti di tipo chimico, come l’affumicatura, la salatura, la fermentazione o la riduzione in marmellata serviva a farli durare più a lungo.
La maggior parte di questi metodi presentava il vantaggio di richiedere poi tempi ridotti per la preparazione dei cibi, inoltre favoriva la creazione di nuovi sapori. Affumicare o salare la carne delle bestie abbattute in autunno era una strategia abbastanza diffusa per evitare di dover nutrire più animali del necessario durante i duri mesi invernali.
Era abitudine comune salare parecchio il burro (attorno al 5-10%) perché non si deteriorasse. Le verdure, le uova e il pesce spesso venivano messi sott’aceto, sotto limone o in salamoia pressandoli in capienti vasi. Un altro metodo seguito era di creare una spessa crosta attorno al cibo, cuocendolo nello zucchero, nel miele o nel grasso, e poi riporlo. Si sfruttavano anche in vari modi le modifiche provocate dai batteri; cereali, frutta e uva venivano trasformati in bevande alcoliche, mentre il latte veniva fatto fermentare e trasformato in una grande varietà di formaggi e latticelli.
La ghiacciaia, un ingegnoso sistema di conservazione dei cibi
Al giorno d’oggi il ghiaccio e il sistema del freddo per la conservazione dei cibi è alla portata di tutti, ma ancora alla metà del secolo scorso, quando i moderni frigoriferi ancora non esistevano, il ghiaccio veniva distribuito casa per casa e conservato in ghiacciaie casalinghe, inventate solo nel 1920.Ma com’era la situazione prima di queste invenzioni?Sino dai tempi dei romani la neve e il ghiaccio venivano immagazzinati in buche o in grotte naturali ed utilizzati sia per rinfrescare le bevande che per conservare i cibi. Nel Medioevo l’uso della conservazione del ghiaccio decade per riprendere poi intorno al XV secolo, grazie all’influsso arabo. Vengono così realizzate ghiacciaie che servivano i ricchi e le comunità. Un caso è la ghiacciaia del XVI secolo appartenente al Monastero di S. Ambrogio a Milano, o le ghiacciaie di Cesenatico, utilizzate dai pescatori o ancora quelle conservate al Monte di Pietà, che servivano alle macellerie che qui avevano sede.Le ghiacciaie potevano essere costruire in mattoni, ma quelle più semplici era semplici buche nel terreno ove il ghiaccio o la neve venivano pressati alternati a strati di paglia e coperti da foglie secche o stracci di lana.
La pasta (cibo di magro) è pasta fresca in area padana, mentre è secca nel Meridione (già nel XII sec. a Palermo è documentata l’esistenza di una produzione industriale).
Tipico alimento della cucina medioevale sono le torte che possono essere ripiene di carni, verdure o formaggi.
Si può anzi affermare che la torta sia una vera e propria “invenzione” culinaria di questo periodo. Essa è presente in tutta Europa, soprattutto in Italia e ancor di più nell’Italia settentrionale.
La diffusione dell’uso delle torte si spiega con la presenza nelle città di forni pubblici di uso comune: la torta è una soluzione pratica e comoda da trasportare, sia da cruda, sia una volta cotta.
Se consideriamo la cultura della pasta unita alla cultura delle torte, ci spieghiamo come sia nata la cultura dei tortelli, cioè delle paste ripiene (un trattato di cucina medioevale ne attribuisce l’invenzione a una contadina padana).
Il pane, nel Medioevo, non è un alimento così scontato come lo è per noi. Il pane bianco è consumato solo nelle città, più precisamente nei monasteri e nelle case signorili.
In campagna il pane si produce con segale, miglio e panìco (simile al miglio); quest’ultimo viene preparato anche sotto forma di polenta (il mais non esiste ancora in Europa, in quanto è una pianta originaria del continente americano).
In campagna si consumano comunemente zuppe d’orzo e di farro oltre che minestre d’avena. Questi, che oggi sono considerati cereali minori, cioè meno pregiati del frumento, in realtà non sono di qualità inferiore e non sono assolutamente sgradevoli sotto il profilo del gusto. È stata l’ideologia dominante che li ha svalutati per marcare le differenze sociali.
Secondo Bonvesin de la Riva, i contadini lombardi mangiano panìco, castagne e fagioli, non i fagioli originari dell’America, ma i fagioli cosiddetti “dall’occhio”, una varietà di origine mediterranea.
Esiste nel Medioevo una cucina locale? Sì, a livello contadino, perché a base di prodotti locali. No, se ci si sposta in città. Una delle caratteristiche della cucina medioevale è quella di non apprezzare le cucine locali, in quanto identificate con la cucina contadina e quindi povera. L’idea della cucina del territorio è un’idea molto recente. Nel Medioevo mangiare i prodotti del territorio è una cosa da “villani” cioè da contadini. Dunque la cucina “alta” è una cucina “internazionale”, un po’ come quella che noi oggi chiamiamo “fusion”.
Il più antico ricettario che ci è pervenuto risale al XIV secolo. Se si confrontano i libri di ricette di quel periodo, ci si rende conto che ricorrono invariabilmente gli stessi piatti e le stesse preparazioni, a dimostrazione del fatto che siamo di fronte a una cultura culinaria diffusa internazionalmente. Come più sopra già affermato, la cucina medioevale sottolinea le differenze sociali.
Per il periodo considerato si deve dunque parlare di cucine cittadine e non regionali. La città assorbe, riassume ed esalta i valori culturali gastronomici del territorio. Ne è una prova il fatto che il prodotto rurale, ad esempio il formaggio prodotto nel contado di Parma, prende il nome dalla città che è dominante su quel territorio. In questo modo la città si rappresenta come il centro e il mercato del suo territorio.
Bevande
In epoca moderna l’acqua rappresenta una scelta comune per la bevanda con cui accompagnare un pasto. Nel Medioevo invece, le preoccupazioni riguardo alla sua purezza, le raccomandazioni mediche e il suo scarso prestigio la rendevano una scelta di secondo piano e le bevande alcoliche venivano sempre preferite. Erano infatti considerate più nutrienti e migliori per favorire la digestione rispetto all’acqua, inoltre avevano l’ineguagliabile pregio, grazie al loro contenuto alcolico, di essere meno inclini a guastarsi ed andare a male. Il vino veniva consumato quotidianamente nella maggior parte della Francia e in tutti i paesi del bacino del Mediterraneo dove si coltivava la vite. Nei paesi del nord era la bevanda preferita dalla borghesia e dalle classi elevate che potevano permetterselo, ma molto meno comune tra i contadini e la classe lavoratrice. La bevanda della gente comune nei paesi nordici era la birra. Data la difficoltà di conservare a lungo questa bevanda (specialmente prima dell’introduzione del luppolo) veniva per lo più consumata fresca; era quindi meno limpida rispetto alle birre moderne ed aveva un contenuto alcolico minore.
Il latte non veniva bevuto dagli adulti, tranne i poveri e i malati ed era riservato a bambini ed anziani. Era comunque molto meno diffuso degli altri prodotti caseari per la mancanza di tecnologie che gli impedissero di andare a male in fretta.
Alla pari del vino sin dall’antichità si preparavano succhi con diversi frutti e bacche, che venivano consumati anche durante il Medioevo: il vino dimelograno e di more e il sidro di pere e di mele erano popolari soprattutto nei paesi nordici dove questi frutti crescevano abbondanti. Tra le bevande medievali sopravvissute fino ai giorni nostri si ricorda il prunellé , fatto con le prugne selvatiche (attualmente chiamato slivovitz). Nei ricettari medievali si trovano molte varianti per preparare l’idromele, con o senza contenuto alcolico. Tuttavia, questa bevanda a base di miele diventò meno popolare verso la fine del periodo e finì per essere relegata ad uso medicinale.
L’idromele è stato spesso rappresentato come la bevanda d’elezione delle popolazioni slave: questo era vero solo in parte perché l’idromele rivestiva un grande valore simbolico, specialmente nelle occasioni più importanti. Quando concludevano trattati o importanti affari di stato spesso offrivano idromele come dono cerimoniale. Si usava comunemente anche in occasione di matrimoni o battesimi anche se in piccole quantità a causa del suo costo elevato. Nella cultura polacca aveva lo stesso status di lussuosi beni di importazione come vino e spezie.Il kumis, bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte di cavallo o di cammello di origine asiatica, era conosciuto anche in Europa ma, come l’idromele, era consumato soprattutto se prescritto dai medici.
Bibliografia:
- L’arte culinaria nella Padania del XII secolo del Prof. Massimo Montanari (Università di Bologna – Appunti della lezione tenuta a Lodi il 15 novembre 2008)
- Massimo Montanari, Alimentazione e cultura nel Medioevo, Roma e Bari, Laterza, 1988.
- (EN) Melitta Weiss Adamson, Regional Cuisines of Medieval Europe: A Book of Essays, Routledge, 2002. ISBN 0-415-92994-6. URL consultato il 30-12-2009.
- (EN) Terence Scully, The Art of Cookery in the Middle Ages, Woodbridge, The Boydell, 1995. ISBN 0-85115-611-8. URL consultato il 30-12-2009.
- (IT) Enrico Carnevale Schianca, La cucina medievale. Lessico, storia, preparazioni, Firenze, Olschki, 2011. ISBN 978-88-222-6073-4.
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