Leggiamo su Forbes.com un articolo che attira molto la nostra attenzione e ve lo riportiamo tradotto di seguito.
L’attenzione è dovuta al fatto che qualche tempo fa traducemmo uno studio eseguito su resti di coloni vichinghi che presentavano un discreto numero di sepolture femminili con armi. La cosa fu interpretata come un’esigenza particolare da parte dei gruppi destinati a fondare colonie in terre ostili, mentre, si diceva nell’articolo, non erano presenti le stesse percentuali di donne “guerriere” in patria.
Ebbene, come sostenevamo in questo e in altri casi, il problema stava più che altro in come si conducono gli studi.
Ma eccovi la traduzione dell’articolo.
A fine ‘800 fu scoperta una tomba affascinante nella città svedese di Birka. Colma di armi, attrezzature da gioco e due cavalli, la sepoltura del X secolo fu considerata quella di un potente guerriero vichingo maschio.
Ma lo scheletro aveva alcuni tratti che suggerivano che la persona sepolta fosse una femmina. Un nuovo studio ha rivelato attraverso l’analisi del DNA che questo potente guerriero era davvero una donna vichinga.
L’idea di un guerriero vichingo donna non è nuova. I racconti storici del Medio Evo parlano di donne che combattono a fianco degli uomini, e anche opere artistiche lo descrivono. Ma per la maggior parte, queste idee sono state respinte come mitologiche, non basate sulla realtà. Con migliaia di note tombe guerriere vichinghe in Europa, però, è ora possibile testare questa idea attraverso lo studio degli scheletri.
Birka, nella Svezia centro orientale, vanta oltre 3.000 tombe vichinghe, di cui circa un terzo sono state scavate dagli archeologi. La popolazione di Birka sembra essere costituita da guerrieri, artigiani e commercianti – i diversi stili di sepoltura in particolare parlano di una cultura molto ricettiva alle influenze esterne.
Una particolare tomba a Birka, scavata alla fine del XIX secolo, è oggetto di un nuovo articolo pubblicato nell’ American Journal of Physical Anthropology da un team di ricercatori dell’università di Uppsala e di Stoccolma, guidato da Charlotte Hedenstierna-Jonson.
Come notano i ricercatori, la sepoltura era di particolare interesse perché “gli oggetti di sepoltura comprendevano una spada, un’ascia, una lancia, frecce, un coltello da combattimento, due scudi e due cavalli (una giumenta e uno stallone), l’equipaggiamento completo di un guerriero professionista “. Inoltre inclusi nella tomba sono stati ritrovati pezzi da gioco che suggeriscono “conoscenza di tattiche e strategia, sottolineando il ruolo dell’uomo sepolto come un ufficiale di alto rango”.
Per secoli, questo individuo è stato considerato maschio, solo a causa della sua panoplia.
Nel 2016, tuttavia, uno dei ricercatori, Anna Kjellström, ha riesaminato lo scheletro di questa sepoltura – e ha scoperto che l’individuo è più probabilmente una donna. “Anche se alcune donne vichinghe sepolte con le armi sono note,” spiegano i ricercatori, “un guerriero femminile di questa importanza non è mai stato determinato e gli studiosi dell’epoca vichinga sono riluttanti a riconoscere una rappresentanza di donne con armi”. Per confermare la sua ipotesi, Kjellström, Hedenstierna-Jonson e il resto del gruppo di ricerca hanno deciso di indagare sul DNA dell’individuo.
I ricercatori hanno testato sia la radice di un dente che un omero provenienti dalla sepoltura. Entrambi i campioni hanno restituito inequivocabili segni di sesso biologico: due cromosomi X e nessun cromosoma Y.
L’aplogruppo del DNA mitocondriale è il T2b, comune in Inghilterra, Islanda e Scandinavia. I valori di isotopi dello stronzio, tuttavia, suggeriscono una provenienza non locale. Tra il tempo in cui il suo primo molare si completava intorno all’età di 4 anni e la sua seconda dentizione intorno all’età di 9 anni, la guerriera si trasferì da una patria indefinita a Birka.
“L’individuo nella tomba BJ581 è il primo guerriero vichingo di alto rango femminile confermato”, concludono Hedenstierna-Jonson e colleghi.
Questa constatazione dovrebbe far sì che tutti gli archeologi interroghino le precedenti identificazioni di genere dei guerrieri vichinghi. In passato, numerosi preconcetti hanno impedito lo studio completo di possibili guerrieri femmine. I ricercatori notano che “associazioni simili di donne sepolte con armi sono state licenziate sostenendo che gli armamenti potrebbero essere stati cimeli, portatori di significato simbolico o doni funerari che riflettono lo status e il ruolo della famiglia anziché l’individuo. Sepolture maschili con analogo materiale non vengono messe in discussione nello stesso modo “. Un altro argomento su questa particolare tomba è che avrebbe potuto contenere un secondo individuo e che tutte le armi appartenevano a lui. E, infine, altri hanno sostenuto che le armi sepolte con una femmina non facessero di lei un guerriero, cosa che non viene però mai considerata nel caso di una sepoltura maschile.
La scoperta di Hedenstierna-Jonson e colleghi apre la strada per una migliore comprensione dei Vichinghi. Mentre il loro documento non solleva in modo specifico la questione di come questa femmina biologica si presentasse verso la sua comunità o come la comunità potesse percepire questa femmina biologica, concludono che “le questioni relative al sesso biologico, al sesso e ai ruoli sociali sono complessi – ed erano così anche nell’era Vichinga “.
Aggiornamento del 10 settembre 2017
Aggiorniamo l’articolo per aggiungere un’interessante reazione segnalataci da una lettrice all’articolo di Charlotte Hedenstierna-Jonson e colleghi .
La professoressa Judith Jesch, direttrice del Centre for the Study of the Viking Age dell’Università di Nottingham ha pubblicato sul suo blog un interessante articolo apertamente critico sui contenuti della ricerca a un solo giorno dalla sua uscita.
Ci piace commentare questa reazione dal nostro punto di vista di semplici appassionati non-specialisti, sottolineando come, evidentemente, questo argomento scateni accesi dibattiti e posizioni di parte, sia in detrattori che in sostenitori dell’esistenza reale di “guerriere vichinghe”. E’ un dato antropologicamente molto affascinante.
L’analisi della Prof. Judith Jesch merita, a beneficio dei lettori, una disamina un po’ lunga e complessa. Applicando il suo stesso metodo di analisi del testo risulta subito che mostri un certo grado di polemica tra accademici, soprattutto quando si lascia andare a commenti del tipo che “i titoloni servono per ottenere fondi” o che “sembra che gli autori della ricerca pensino che la narrativa altomedievale non necessiti di una particolare esperienza come maneggiare ossa o DNA”.
La seconda cosa che si nota è che la studiosa mette al primo punto un piccato commento all’uso delle fonti che la riguarda direttamente, polemizzando sull’uso dei propri scritti, addirittura su come vengano citati in bibliografia.
I “capi d’accusa” sono sei:
1. Non aver incluso nel team di ricerca anche studiosi di testi storici, aver mescolato miti e riferimenti storici e averli dati per scontati senza approfondirli, aver mal citato testi (scritti da lei), non averne citati (sempre suoi) di più recenti.
Francamente su questo troviamo delle motivazioni fortemente personali, ma anche a prescindere da questa sensazione, ci pare del tutto normale che in un report scientifico basato su risultati genetici si citino i riferimenti bibliografici di altre discipline e non si entri nel merito. Altrimenti per ogni articolo scientifico pubblicato dovremmo leggere una biblioteca. Questa parte ci appare faziosa, almeno fino al momento in cui non si ritroveranno nella tomba inscrizioni o elementi da sottoporre a un esperto linguista.
2. Il secondo punto ha un livello di interesse un po’ maggiore perché discute il fatto che la scoperta della tomba risalga alla fine del XIX secolo e che i reperti possano essere stati conservati in modo tale da poter ingenerare dubbi sull’appartenenza del materiale osseo analizzato a quella specifica tomba. Aggiunge che il lavoro di osteologia citato non abbia restituito le certezze che secondo la Jesch vengono espresse nell’articolo. Che sostanzialmente si sia enfatizzata in malafede l’importanza delle precedenti analisi osteologiche, nascondendo i dubbi sulla provenienza dello scheletro in un allegato all’articolo e non riportandolo chiaramente nel testo principale.
Quel che viene detto nell’allegato è quanto segue:
“L’osteologo Berit Vilkans notò già all’inizio degli anni ’70 che i resti scheletrici della tomba mostravano caratteristiche femminili (Vilkans, 1975). Tuttavia, a causa del fatto che alcuni reperti e materiali osteologici di Birka hanno perso una contestualità durante gli anni di conservazione, le osservazioni di Vilkans non sono mai state commentate. Tuttavia, salvo il cranio mancante, i resti documentati corrispondono alla documentazione di Stolpe dal 1889 (Stolpe, 1889). Per esempio, tra le tombe a inumazione raffigurate poche sembrano aver avuto colonne vertebrali complete al momento dello scavo. Durante l’indagine osteologica, di almeno 245 scheletri non cremati, solo quattro, ad eccezione di Bj 581, hanno una colonna vertebrale completa conservata. Tutti gli elementi ossei sono stati segnati in un solo momento con il testo “Bj 581” in inchiostro. Inoltre tutti condividono le stesse caratteristiche e colore della superficie, indicando che fanno parte dello stesso individuo.”
Ci pare che effettivamente questa disamina avrebbe dovuto avere il giusto spazio nell’articolo principale, proprio per evitare l’enunciazione di dubbi così espliciti. Appare invece strano che la Jesch pur parlando dell’allegato non abbia colto questi elementi “a favore” della congruenza dei reperti e si appelli soltanto a una frase dello studio osteologico che recita “se queste non siano le ossa pertinenti a questa tomba o se questi risultati aprano reinterpretazioni per le tombe con armi a Birka è ancora troppo presto per dirlo”.
Probabilmente la dimostrazione di congruenza riportata nell’allegato è resa necessaria proprio a causa di queste prudenze, precedentemente espresse da appartenenti al team stesso della più recente ricerca.
Certo non abbiamo la possibilità di accedere al lavoro completo di Stolpe, disegnatore degli scavi nel 1889, né di eseguire un’analisi calligrafica sulle sigle riportate sulle ossa, ma, come per tutte le ricerche pubblicate, dobbiamo fidarci.
3. Al terzo punto la Jesch critica le conclusioni tratte dagli autori della ricerca in merito all’alto rango militare detenuto dalla donna sepolta, basandosi sulla presenza di una così ricca panoplia, due cavalli e pezzi da gioco. Anche noi siamo rimasti perplessi da queste deduzioni, ma non più di quanto accada per deduzioni simili in caso di tombe maschili.
4. Anche il quarto punto è interessante. Si riferisce all’affermazione che lo scheletro non riportasse segni di traumi, patologie o ferite. Nell’articolo originale si parla di assenza di tali dati in numerosi scheletri sepolti a Birka con armi. Se ne trae la conclusione che questi “guerrieri” fossero così capaci da non venire mai colpiti e feriti o che al contrario non fossero affatto “guerrieri”. E’ un’osservazione davvero interessante, che ovviamente coinvolge “tutte” le tombe con queste caratteristiche.
Quindi ci si può attendere che anche molti maschi determinati come guerrieri non lo fossero in realtà? Speriamo di leggere a breve qualche studio a riguardo. Così come siamo curiosi di leggere, come suggerisce Jesch, un futuro studio osteologico sullo sviluppo scheletrico di questo individuo, ma anche di tutti gli altri simili, che, se addestrati duramente all’uso delle armi per molti anni e così capaci da non venire mai colpiti, dovevano sicuramente portarne traccia fisica.
5. Al quinto punto viene mossa una critica che definiremmo “circolare”. Cioè la Jesch rinfaccia agli autori dell’articolo di sostenere che la donna fosse una guerriera “solo” perché si trovano armi nella sua tomba, quando proprio loro si sono posti in modo critico verso l’identificazione di genere basato sulla presenza di armi. Ovvero li accusa di basarsi sulla presenza di armi per assumere che sia una guerriera senza proporre spiegazioni alternative, cadendo nello stesso errore che loro stessi denunciano.
In effetti l’osservazione può avere un senso, trattandosi di un’analisi genetica che alla fine dimostra “solo” il sesso dell’inumato, la contestualizzazione e le sue varianti restano a carico di studiosi di tradizioni, storia, letteratura, mitologia, simbolismi e società vichinga. Probabilmente sarà la Jesch, o suoi colleghi, a poterci dare una possibile spiegazione alternativa, che al momento non è stata fornita.
6. Il sesto punto si ricollega al primo riprendendo l’uso sostanzialmente superficiale dei riferimenti bibliografici suggerendo che gli autori abbiano letto sommariamente la loro stessa bibliografia. Ovviamente si riferisce ai propri scritti.
Lo spunto di discussione è davvero interessante, dal nostro punto di vista ribadiamo quanto scritto in un nostro commento sulla pagina Facebook.
“Tuttavia, come giustamente ricordato nell’articolo odierno dai ricercatori, i fatti sono che l’individuo è geneticamente femmina e che gli oggetti presenti nella sepoltura sono paragonabili a quelli di un guerriero di alto rango. Con questi dati non siamo in grado né di generalizzare la presenza femminile tra i guerrieri né di capire il ruolo di questa particolare donna. Certo è che davanti a una sepoltura maschile di questa portata nessuno supporrebbe che il corpo ritrovato non sia il vero proprietario della panoplia e che dovesse necessariamente esserci un secondo scheletro… Questi meccanismi mentali non sono degni di seria ricerca.”
Aggiornamento del 18 settembre 2017
La dott. ssa Judith Jersch è stata invitata pubblicamente sul New York Times a sottoporre a peer review le proprie opposizioni da Mattias Jakobsson, genetista all’Università di Uppsala e coautore dello studio. Judith Jersch declina, facendo qualche passo indietro.
Il dottor Harrison, che non è coinvolto nello studio, ritiene che molti preconcetti sui Vichinghi si sono formati nel XIX secolo. “Quello che è successo negli ultimi 40 anni attraverso la ricerca archeologica, in parte alimentato dalla ricerca di genere, è che anche le donne sono state sacerdotesse e leader”, ha detto. “Questo ci ha costretti a riscrivere la storia.”
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