AGNESE VISCONTI, UNA VITA DA TRAGEDIA
di Luigi Barnaba Frigoli
“Un tradimento inaspettato insidia i tuo giorni, o Francesco.
Una congiura spiegò in tua reggia famigliar nemico.
Tuo nuzial letto è mal sicuro asilo”.
Inizia così la tragedia ottocentesca di Girolamo Fiorio, intitolata “Agnese Visconti”. E, senza dubbio, la vicenda della figlia di Bernabò Visconti lo è davvero, materia da tragedia. Una tragedia oggi sconosciuta ai più; di certo non ai mantovani doc. Perché è la città di Mantova, la Mantova medievale, di fine Trecento, il palcoscenico del dramma.
Tutto ha inizio nel 1380. Un anno particolarmente fecondo di matrimoni e prestigiose alleanze tra le grandi casate italiane. In particolare per quella dei Visconti, capeggiata, allora, dal terribile Bernabò e da suo nipote Gian Galeazzo, Conte di Virtù, appena succeduto al padre, Galeazzo II. Agnese venne data in moglie a Francesco Gonzaga, erede di Ludovico II, capitano del popolo della città che diede i natali a Virgilio e Sordello.
Erano entrambi adolescenti: una quindicina d’anni lui, diciassette lei. Grazie alla loro unione Visconti e Gonzaga non furono più semplici alleati. Divennero parenti. E per qualche tempo allo stemma giallo e nero mantovano poté affiancarsi il Biscione milanese. Di certo, in quelle nozze, l’amore non c’entrava nulla. Ma questa non è una novità.
Eppure Agnese era donna di cui innamorarsi, e follemente. “Era di corpo bellissimo, ed avea negli occhi e nel volto quel soave attrattivo che invita ad amare”, la descrivono storici. Francesco, invece, nonostante la giovane età, prendeva molto sul serio il suo ruolo di sovrano. Vicario imperiale, aspirava a diventare marchese. I cronisti lo definiscono “munifico e liberale”. Sull’esempio del padre, costruiva castelli, fortificava la città, abbelliva i suoi palazzi, muoveva guerra, intratteneva intense relazioni diplomatiche. Un’alacre attività di governo che gli fece presto meritare l’appellativo di Magnifico. Probabilmente il fascino di Agnese non gli era totalmente indifferente. Ma quando lei gli partorì una figlia, Alda, anziché un erede maschio, il rapporto iniziò drasticamente a raffreddarsi. Finché il gelo non divenne ghiaccio. Nel cuore di Francesco la ragion di Stato prese definitivamente il sopravvento sui sentimenti, mentre Agnese, trascurata e troppo spesso abbandonata nelle meravigliose stanze della reggia mantovana, iniziò ad essere rosa dai tarli della solitudine. La rottura definitiva tra i due avvenne dopo soli cinque anni di matrimonio. Nel 1385 Gian Galeazzo Visconti spodestò lo zio Bernabò dal trono di Milano. E lo fece con il più subdolo dei tranelli. Poi lo imprigionò nel castello di Trezzo, dove il vecchio signore perì, forse avvelenato, dopo sette mesi di stenti e umiliazioni. Alla stessa, ignobile sorte furono condannati i suoi figli maggiori. A quelli minori, Carlo e Mastino, non restò che l’esilio.
Nelle loro peregrinazioni i due proscritti non mancarono di passare per Mantova, al fine di chiedere aiuto all’illustre cognato attraverso l’intercessione della sorella. Francesco non solo non mosse un dito, non solo li lasciò in balìa del proprio destino, ma addirittura stipulò un accordo di amicizia con l’aguzzino del suocero. Agnese non glielo perdonò mai. Addolorata per la triste fine del padre, impotente di fronte alla rovina dei fratelli, dovette sopportare anche l’umiliazione di vedere il marito far comunella con la spregiudicata serpe che aveva distrutto la sua famiglia. Probabilmente Agnese provò anche a dar manforte ai fratelli, sostenendoli finanziariamente o spendendo il proprio nome per trovar loro alleati nella disperata lotta che si preparavano a ingaggiare contro l’usurpatore. Ma il margine d’azione e di influenza della signora di Mantova era quello che era. Ciò nonostante, il signore di Milano venne presto a sapere dell’astio covato dalla cugina. Glielo riferirono i suoi ambasciatori a Mantova, davanti ai quali Agnese non aveva timore di infangare il nome del dominus Mediolani. Conte di Virtù? Per lei era solo un Conte di sozzure. Quando poi a palazzo si diffondeva la voce di una sconfitta dell’esercito visconteo, allora impegnato in una guerra spietata contro Padova, Bologna e Firenze, per Agnese era l’occasione per far festa. Una volta, si dice, Francesco la sorprese a cantare e ballare, al settimo cielo per una batosta rimediata in Veneto dalle truppe della Biscia: le sganciò due sonori ceffoni, per spegnere un entusiasmo che considerava fuori luogo. Il Magnifico, infatti, ancora non poteva rinunciare, come avrebbe fatto in seguito, all’alleanza col Visconti. Ma l’atteggiamento della moglie iniziava a metterlo in cattiva luce, luce pessima, al cospetto di colui che si era messo in testa di diventare re d’Italia.
Proprio per tenersi buono il Conte, nel 1390 il Gonzaga accettò di aggregarsi alla scorta di nobili cavalieri che avrebbero condotto Valentina, la figlia di Gian Galeazzo, in Francia, dove la fanciulla avrebbe sposato niente meno che Luigi, duca di Turenna, fratello di re Carlo VI. E fu probabilmente durante l’assenza del consorte che Agnese scoperchiò il vaso di Pandora di tutti i mali che di lì a poco l’avrebbero travolta.
La figlia di Bernabò, di fatto separata in casa, aveva un flirt. Niente di carnale. Solo una timida corrispondenza d’amorosi sensi con un baldo giovanotto ben introdotto alla corte del Magnifico: Antonio da Scandiano. Più trascorreva il tempo, però, più gli sguardi e i sorrisi ambivano a diventare altro. E, inevitabilmente, altro divennero.
Tornato il gatto, i due topi fecero il possibile e l’impossibile per non lasciar trapelare nulla. Ma purtroppo per loro si mise di mezzo l’invidia. Quella di un’ancella di Agnese, Elisabetta de’ Combaguti, cui non erano sfuggiti gli indizi della tresca. Chissà se, come immagina il Fiorio nell’incipit della sua tragedia, la delatrice fece davvero arrivare la maliziosa notizia a Francesco attraverso un anonimo biglietto o se, invece, gli spifferò tutto mettendoci la faccia. Fatto sta che l’ira del Gonzaga si abbatté feroce sui due amanti. Teneva sopra a ogni cosa, Francesco, la fedeltà. Non per niente nelle sue imprese campeggiavano simboli inequivocabili di lealtà. Ali tenute assieme da un anello, la tortora, alani al guinzaglio. In quattro e quattr’otto istruì un processo degno dell’Inquisizione chiamando a far contemporaneamente da accusatori e da giudici il podestà Obizzo de’ Garsendini e il notabile Giovanni Della Capra. Elisabetta venne interrogata e così le altre dame di compagnia della signora di Mantova, cui Agnese aveva fatto promettere il silenzio. Il timore di incorrere in atroci tormenti vinse sul desiderio di proteggere la propria padrona. Tutte testimoniarono che, sì, era vero: madonna fornicava con il bell’Antonio. Anche i due fedifraghi ammisero. E in questo caso le torture non furono solamente minacciate. Nel febbraio 1391 arrivarono sia la sentenza che la condanna: colpevoli di aver dato sfogo ad un “amorem illicitum et nefarium”, Agnese e il suo amante avrebbero espiato con la vita. Medesimo fu il boia, tal Giovanni Cavallo; medesimo fu il luogo del martirio, l’orto vecchio di palazzo Gonzaga. Differente lo strumento di morte: lei fu decapitata, lui venne appeso per il collo.
La notizia dell’ingrata e truce fine di Agnese, ovviamente, fece il giro di tutte le corti e città d’Italia ed Europa. E ben presto non tardarono a farsi strada, parallele alla versione ufficiale, inquietanti seconde verità su come fossero andate realmente le cose. Per molti, ad esempio, Agnese era innocente e l’infamante accusa di tradimento, e la conseguente condanna, erano state solamente dei pretesti. Nient’altro che un piano diabolico e crudele architettato dallo stesso Francesco per dimostrare la propria indefessa fedeltà a Gian Galeazzo. Oppure fu Gian Galeazzo (che pure ebbe modo di rinfacciargli il delitto) a diffondere abilmente calunnie e sospetti nelle stanze di palazzo Gonzaga, magari corrompendo serve e testimoni, per punire colei che, alla stregua degli altri figli di Bernabò, continuava a bramare vendetta nei suoi confronti? Chissà.
Rimasto vedovo, Francesco attese due anni. Poi si risposò con Margherita Malatesta, che gli diede il tanto atteso figlio maschio, Gianfrancesco, ma che portò nei geni della dinastia mantovana la piaga del rachitismo. Morì anch’essa precocemente, nel 1399. In lutto per la seconda volta, il Magnifico partì alla volta della Terra Santa. Un modo per espiare le proprie colpe, prima di rendere l’anima a Dio. E chissà se, penitente al Santo Sepolcro, non abbia chiesto perdono anche per la spietata punizione inflitta alla sua prima bella, indomabile e testarda moglie, immolata sull’altare della politica e della diplomazia ben prima di essere travolta dal suo (presunto) amore clandestino.
Di Agnese resta una lapide, posta nel XIX secolo, nel giardino dove il capo le venne diviso dal corpo. Recita: In questi pressi nel febbraio 1391 venne decapitata Agnese Visconti sposa di Francesco Gonzaga, capitano del popolo, nell’età di 23 anni.
Una leggenda vuole che il suo fantasma ancora aleggi per le stanze del grande palazzo mantovano. Altri, invece, giurano di aver udito, nel silenzio della sera, di fronte alla lapide che ricorda la sua fine, un lamento. Penoso. Straziante. Insostenibile anche per chi ha macigni al posto del cuore.
BIBLIOGRAFIA MINIMA:
- L. Cibrario, “Opuscoli storici e letterari, editi e inediti”, Milano 1835.Annales Mediolanenses (in Antonio Muratori, R.I.S., Tomo XVI)
- B. Corio “Storia di Milano”
- B. Platina, Historia inclytae urbis Mantuae et serenissimae familiae Gonzagae
- R. Signorini, “Imprese gonzaghesche”, Ed. Sometti, Mantova 2013
- D. Balestracci, “Le armi, i cavalli, l’oro. Giovanni Acuto e i condottieri nell’Italia del Trecento”, Laterza 2003
- G. Fiorio, “Agnese Visconti, tragedia”, Mantova 1829
- Processus et sententia lata contra dominam Agnetem de Vicecomitibus Mediolani uxorem domini Francisci de Gonzaghis, Archivio di Mantova
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