Un bell’articolo di Valeria Cobianchi apparso sul numero di Giugno 2015 del prestigioso mensile Forma Urbis. Riguarda la ricerca e sperimentazione degli usi alimentari nell’Alto Medioevo e in particolare nell’Italia Longobarda. Buona lettura!
Mentre sedeva a banchetto in Verona più allegro di quanto sarebbe stato opportuno, ordinò di dare da bere del vino alla regina nella coppa che egli aveva fatto con la testa di Cunimondo, suo suocero, e la invitò a bere lietamente insieme a suo padre.
Così Paolo Diacono descrisse una delle più note e macabre scene di banchetto del Medioevo, avvenuta tra Alboino re dei Longobardi e sua moglie Rosmunda sullo sfondo di una scenografia conviviale che funge da pretesto per mettere in scena un dramma privato e una provocazione puramente politica.
In queste poche righe dell’Historia Langobardorum, la fonte più nota della storia longobarda, è possibile ritrovare una formula universale che nella letteratura di tutti i tempi si ripeterà con personaggi, situazioni e motivi differenti ma che vedrà sempre in primo piano un simposio in cui si discutono vicende personali, politiche e culturali, sottolineando un rapporto tra cibo e uomo che non è solamente espletamento di una funzione vitale, ma anche fonte di piacere, ispirazione artistica e letteraria e occasione conviviale in cui si mettono in gioco strategie e rapporti.
L’atto di nutrirsi, la scelta dei cibi e il loro consumo sono principio della nostra esistenza e influenzano lo stile di vita, la socialità e la cultura di ogni essere umano. Le pratiche alimentari, essendo caratterizzate da una certa ripetitività e consuetudine, possono considerarsi vocaboli di un linguaggio codificato che regola la vita di una comunità, nella quale il singolo individuo si riconosce e afferma la propria identità. In questa sorta di “geografia culinaria” il territorio diviene lo sfondo in cui s’incontrano tradizioni differenti che danno vita a contaminazioni e a prodotti nuovi che caratterizzano l’ambiente in cui nascono; esiste quindi una stretta relazione tra alimentazione e territorio, non solo dal punto di vista dello sfruttamento delle risorse naturali, ma anche per l’adattamento e il cambiamento di stile di vita di una collettività rispetto a un’altra.
Queste semplici considerazioni generali di cui sarebbe possibile dilungarsi oltre misura sono state il principio di una riflessione maturata dagli archeologi e dai ricercatori che fanno parte di Presenze Longobarde, progetto di living history e ricostruzione storica che si occupa dello studio della cultura materiale del Piemonte in età longobarda.
Lo studio dell’alimentazione di questo periodo ha mosso i primi passi all’interno di un argomento vastissimo per i suoi aspetti e lacunoso per l’esiguità di fonti materiali e studi specifici, e ha cercato di raccogliere e di confrontare i dati archeologici con quelli delle fonti storiche e documentarie di VI e di VII secolo d.C., sperimentando di volta in volta pietanze, cotture e metodi di preparazione ottenuti dall’incrocio di tutte le informazioni disponibili.
La riproduzione fedele di ceramica attestata dall’archeologia (ceramica stampigliata, ceramica comune grezza da fuoco, ceramica acroma) e il suo utilizzo nelle diverse fasi della sperimentazione ha permesso di verificare il rapporto tra forma e alimento e di formulare delle ipotesi circa la preparazione e i tempi di cottura.
Gli interrogativi che si sono posti all’inizio della sperimentazione e che tuttora guidano la ricerca corrispondono ai diversi ambiti in cui collocare lo studio dell’alimentazione: le specie coltivate, i metodi di cottura e preparazione dei cibi, il corredo domestico che non era costituito solamente da oggetti in ceramica, ma anche metallo, vetro e legno, l’allestimento del banchetto sono i temi tuttora in corso di elaborazione.
Gli studi archeologici e le ultime pubblicazioni riguardanti l’archeozoologia, l’aspetto fisico, lo stile di vita e lo stato di salute contribuiscono ad aggiornare i dati e le conoscenze sul tipo di nutrizione, qualità della dieta e patologie causate da determinate pratiche alimentari e da regimi sbilanciati.
Questo piccolo contributo intende essere un “assaggio” di una ricerca più ampia e complessa tuttora in corso e uno strumento di living history valido per lo studio della storia e l’archeologia.
L’invito di Presenze Longobarde è quello di sedersi alla tavola di Alboino e Rosmunda per assaporare le pietanze e assistere allo svolgersi dei fatti storici.
Il progetto Presenze Longobarde
Il progetto Presenze Longobarde nasce nel 2012 dall’incontro e dalla passione di alcuni archeologi medievisti già attivi nel campo della ricostruzione storica, che avevano maturato nel corso degli anni il desiderio di sperimentare i diversi aspetti della vita quotidiana e della cultura materiale relativi all’altomedioevo longobardo.
L’area geografica presa in considerazione è il Piemonte, regione che per il periodo altomedievale dal punto di vista della ricerca archeologica ha potuto contare dagli anni ottanta in poi su un elevato numero d’indagini condotte in siti urbani e rurali. Per quanto riguarda i rinvenimenti archeologici, ha restituito dati che riguardano i contesti funerari ricchi di sepolture e corredi, e quelli insediativi da cui si possono ricavare informazioni sulle strutture abitative, le attività artigianali e lo stile di vita quotidiana. Essi testimoniano un periodo di grande trasformazione non solo politica ed economica, ma anche strutturale all’interno della società stessa, che ha introdotto nuove pratiche di scambio e innovazione culturale. Ciò è confermato dal punto di vista materiale, dalla quantità di manufatti in ceramica, metallo, vetro e osso e altri materiali organici ritrovati negli scavi archeologici, che rappresentano l’indicatore principale su cui basare una corretta ricostruzione storica.
Tuttavia, sebbene i dati a disposizione siano tanti e gli studi relativi al periodo longobardo siano aumentati negli ultimi decenni, approfondendo i principali filoni di ricerca e mettendone anche in luce alcune criticità a livello storiografico, esistono dei limiti da imputare alla scarsità delle fonti iconografiche e allo stato di conservazione dei reperti. In questo caso l’archeologia può avvalersi di validi strumenti come l’archeologia sperimentale e la ricostruzione storica, che sono in grado di proporre delle ipotesi d’interpretazione basate sull’esperienza diretta.
La Living History, sebbene sia una disciplina relativamente nuova, si è diffusa già molto rapidamente in Italia e in Europa, acquisendo una maggiore visibilità ed evolvendosi come movimento in una delle principali e di gran lunga preferite modalità di studio e pratica della storia, anche grazie allo sviluppo di temi non strettamente militari, alla varietà delle epoche rappresentate, alla presenza di numerosi gruppi caratterizzati da una profonda conoscenza della materia storica trattata e da elevati standard di autenticità.
Lo scopo finale è quello di ricostruire frammenti della vita quotidiana di questo periodo grazie a due principali strumenti metodologici: lo studio delle fonti, siano esse documentarie, materiali o iconografiche, e la riproduzione dei dati raccolti, per la riproduzione di abiti, oggetti e attività.
In quest’ultima finalità, s’inserisce la volontà di fare propri i metodi dell’archeologia sperimentale ed estenderli allo studio dell’epoca storica, e di documentare, quasi fossero momenti di un’indagine archeologica, i singoli passi necessari a realizzare un prodotto materiale partendo da un’idea e verificandone la validità attraverso puntuali confronti con dati storici, archeologici e scientifici.
Attraverso questi strumenti, è stata proposta la ricostruzione storica di un gruppo familiare di status sociale medio-alto, reso esplicito dall’abbigliamento e dalla tipologia degli oggetti d’ornamento, sia maschili che femminili. I contesti archeologici da cui sono state attinte le informazioni necessarie per la fedele ricostruzione di abiti e ornamenti, sono le necropoli di Trezzo Sull’Adda (MI) e di Collegno (TO) ma anche i siti piemontesi di Testona, Mombello Monferrato, Desana, Lingotto, Moncalieri; il tutto è stato riprodotto fedelmente da artigiani italiani ed europei specializzati nel settore e confrontato con i materiali storici, senza lasciare nulla al caso o alla libera interpretazione, rispettando la fedeltà alla materia prima utilizzata, al tipo di lavorazione e non da ultimo alle dimensioni reali dell’oggetto.
La tavola e la cucina longobarda
L’alimentazione del periodo longobardo è uno dei grandi temi riguardanti il progetto di ricostruzione storica, impegnativo per il recupero delle informazioni utili e difficile per la riproduzione di ingredienti e oggetti d’uso domestico.
Con uno sguardo al passato tardo romano offerto dal trattato De re coquinaria di Apicio, è stato possibile ritrovare e proporre ricette del VII e dell’VIII secolo grazie agli studi condotti negli ultimi anni e utilizzando gli ingredienti elencati nelle descrizioni desunte dalle varie fonti storiche: la principale e forse la più conosciuta è De observatione ciborum di Antimo, medico bizantino alla corte di Ravenna del VI secolo, che scrisse un piccolo trattato sulla dietetica indirizzato al re dei Franchi Teodorico. Da questa fonte così come dagli scritti di Isidoro di Siviglia, di Vinidario e da altri documenti, si evince la tendenza della cucina altomedievale a sovrapporre e ad amalgamare i sapori senza distinzione tra dolce e salato come avviene ora, e di utilizzare tecniche di cottura differenti nella preparazione di una stessa pietanza.
Iniziando dalle bevande, nell’alto medioevo l’incontro-scontro fra mondo romano e mondo germanico fece da teatro all’opposizione fra cultura del vino, rafforzata dall’affermarsi della religione cristiana, e cultura della birra, ampiamente diffusa tra le popolazioni germaniche. La dicotomia tra le due bevande non implicò dunque soltanto differenze di gusto, ma assunse significati di caratura ideologica, culturale e religiosa; birra e vino dunque, ma non acqua, che una fonte del periodo definisce “humidissima est”. La preferenza delle bevande fermentate deriva dal fatto che l’acqua non era potabile, per cui si preferiva l’acqua piovana poiché lontana dalle impurità del suolo. Tuttavia l’acqua dei pozzi, delle sorgenti, dei fiumi era consumata con prudenza; si usava infatti bollire o aromatizzare l’acqua con succhi di frutta acida (lamponi, mirtilli, more) in grado di produrre una lieve fermentazione che la rendeva immune da batteri e ne conferiva un sapore più piacevole. Di tradizione romana era una miscela di acqua e aceto chiamata posca.
Per quanto riguarda il vino, Isidoro di Siviglia ricorda nel suo trattato il melicratum (chiamato anche mulsum), un misto di vino e miele speziato con pepe nero, e l’ossimello, una bevanda a base di miele e aceto menzionata anche da Antimo come uno degli ingredienti principali delle sue ricette per condire la carne o le uova assodate.
La birra è uno dei progetti in fase di sperimentazione di cui Isidoro cita l’orzo come ingrediente principale.
Così come per le bevande, l’incontro tra due culture alimentari differenti generò una contaminazione anche per i cibi solidi, dove da una parte la tradizione romana aveva adottato un regime prevalentemente vegetariano, fondato sulla triade cereali-olivo-vigna – sacralizzata dalla liturgia cristiana dai simboli del pane, vino e olio – e dall’altra un’alimentazione barbarica che possedeva una natura piuttosto cerealicola-carniera, concentrata notoriamente su burri, latte e birra. Il primato dell’animale sulla pianta è proprio di una cultura barbarica che vive di caccia e guerra, che originariamente apparteneva a una popolazione nomade abituata a spostarsi di continuo e in tempi limitati.
Questo è uno dei principali aspetti dell’impatto che le popolazioni germaniche ebbero sull’alimentazione di tradizione romana; la carne via via andò a prendere un’importanza crescente nella dieta quotidiana, soprattutto nella classe medio-alta. La carne di maiale divenne la più consumata da tutti i ceti sociali in assoluto, dato che viene a essere confermato dalle recenti scoperte archeologiche di resti archeozoologici di specie suina, ritrovati in notevole quantità e classificati per specie e consumo. Negli Excerpta Vinidario aggiunge trentadue ricette tutte a base di carne.
Sempre grazie alle parole di Antimo è possibile apprendere che alla corte dei Franchi si faceva un consumo eccessivo di lardo; nella lettera indirizzata al sovrano, il medico lo redarguisce e gli consiglia di sostituirlo con l’olio.
Quest’alternanza di lardo-olio, testimoniata da altre fonti altomedievali, specificò l’appartenenza a un territorio, a un ceto sociale e a una cultura; a questo si riferisce un documento lucchese del 765, quando si dispone che il piatto destinato ai poveri, distribuito tre volte la settimana, sia condito di strutto o di olio, a seconda del calendario.
Lo storico Eginardo, autore della Vita Karoli e storico per eccellenza di Carlo Magno, a proposito delle preferenze alimentari del sovrano scrisse che ogni giorno faceva preparare dai cacciatori gli spiedi di selvaggina da arrostire sul fuoco “che mangiava più volentieri di qualsiasi altro cibo”. In questo caso si intuisce non solo il gusto personale dell’imperatore, ma anche l’esclusività di una pietanza che viene servita a una classe privilegiata. Continuando con la lettura di Eginardo, si scopre che Carlo Magno, pur malato di gotta, litigava con i medici “perché lo esortavano a rinunciare agli arrosti, cui era avvezzo e a passare alla carne lessata”. Non è così difficile immaginare un personaggio di rango elevato come il sovrano carolingio malato di gotta, visto il largo consumo di carne e la frequenza con cui questa abitudine viene ricordata nelle fonti.
Nella pratica del progetto ricostruttivo, è stata sperimentata la preparazione e la cottura del bos in iuscello, un piatto di carne di manzo ricordato nel trattato di Antimo; è stata testata la doppia cottura della carne, prima portata a ebollizione e insaporita con spezie come coriandolo, chiodi di garofano e lavanda, e poi successivamente arrostita e irrorata da una salsa di miele.
Un altro degli aspetti in corso di ricerca e sperimentazione del progetto Presenze Longobarde è la panificazione. Il pane è il complemento per definizione “panis dictus quod cum omni cibo adponatur”, si aggiunge a ogni cibo dice Isidoro di Siviglia. I cereali utilizzati non solo per panificare, erano i cosiddetti poveri: segale, avena, farro, panìco e miglio (quest’ultimo era usato per la preparazione di altre pietanze in quanto non lievita). È stata sperimentata la cottura del pane di farina di segale, una pianta resistente al freddo che garantiva un buon raccolto e probabilmente utilizzata non solo in ambito alimentare, ma anche come materiale da costruzione nella copertura dei tetti delle capanne. Si tratta di un pane nero e povero rispetto al pane bianco dei ricchi impastato con frumento puro, un vegetale poco coltivato per la sua sensibilità al maltempo. Le fonti raccontano del vescovo Gregorio Langres che offriva pane bianco ai propri ospiti e commensali. Ma egli, essendo un uomo pio, doveva mortificarsi mangiando pane nero e non potendo peccare di vanagloria mostrandolo a tutti, fingeva in pubblico di mangiare il pane bianco mentre di nascosto si cibava di quello nero.
Il povero re dei Franchi ancora una volta viene ammonito da Antimo: il pane “ben fermentato e non azzimo” deve essere cotto ogni giorno dal momento che “tali pani si digeriscono meglio”.
Nulla viene buttato via in tempi di carestia e scarsità di cibo, figuriamoci il pane: lo conferma la cosiddetta Regula Magistri di San Benedetto del VI secolo dove si prescrive che le micae panis, avanzate sul desco dopo ogni pasto, fossero raccolte e conservate in un vaso in modo che il sabato di ogni settimana i monaci potessero cucinarle in una padella con un po’ di uova e farina per poi essere mangiate a guisa di torte.
Durante la fase di ricerca la domanda su come venissero servite le pietanze e se ci fosse un numero di portate è stata esaudita ancora una volta dalle fonti del periodo.
Il modello del piatto unico, tipico del mondo contadino, si ritrova nei piatti assegnati ai poveri: papa Adriano dispose che cento poveri fossero nutriti ogni giorno; sarebbe stato sufficiente a fare ciò un grande calderone di carne, cereali e verdure. Nel pulmentum di questa caldaria finivano carne di maiale, frumento e orzo che costituivano un piatto altamente denso e sostanzioso. Non diversamente il già citato documento lucchese dell’VIII secolo riporta che il prete Rissolfo avesse ordinato che ai poveri fosse somministrata una minestra (pulmentarium) preparata con una mistura di fave e panìco, spessa e ben condita. A proposito di quest’ultimo piatto, il pulmentum o pulmentarium è un termine che nelle fonti altomedievali ricorre spesso e non indica una pietanza specifica, ma un insieme di ingredienti come carne, pesce, cereali o verdure che formano una portata, così come viene indicato nella Regula Magistri.
Allo stesso modo anche la mensa dei ricchi prevedeva una portata unica al centro della tavola: un grande vassoio da cui attingere a piene mani le pietanze.
L’atteggiamento complessivo nei confronti del cibo era cambiato nel corso dei secoli.
Per la cultura antica l’ideale supremo era quello della misura: banchettare con piacere ma senza voracità, offrire generosamente ma senza ostentazione. Al contrario la tradizione barbarica vedeva il vorace come un personaggio positivo e forte, superiore per il suo appetito.
Ancora una volta la voce delle fonti documentarie presenta due aneddoti relativi a questo comportamento: Liutprando da Cremona ci narra che Guido di Spoleto avesse perso il trono di Francia perché morigerato a tavola, quindi non degno di fiducia agli occhi dei suoi nobili.
Il Chronicon Novalicense narra che dopo la conquistata dell’Italia, Carlo Magno si ritrovò a partecipare a un banchetto a Pavia. Durante la cena vide un guerriero che spaccava con i denti le ossa di cervo, orso e bue e poi le buttava in terra. Il sovrano rimase colpito da questo atteggiamento che sicuramente lasciava intuire il coraggio e la forza del guerriero.
Gli studi antropologici sulla qualità della vita condotti sui reperti osteologici provenienti dalle indagini della necropoli di Collegno, sembrano confermare queste particolari pratiche alimentari per quanto riguarda la forte abrasione dei denti anteriori riscontrata su un gruppo di individui dai 35 ai 40 anni.
Nel regime alimentare di questo periodo, oltre ai cereali, vanno menzionati anche i legumi nella fattispecie ceci, fagioli (ovviamente il dolico o fagioli con l’occhio) fave, cicerchia e veccia. San Colombano menziona anche i piselli, mentre Antimo non fa nessun riferimento. Il largo consumo dei cereali risiede nella loro facilità di conservazione una volta essiccati e nelle loro ricche qualità nutrizionali.
Per quanto riguarda invece le verdure trovano posto nella tavola longobarda il cavolo, la rapa, il navone, le carote di color violetto – l’arancio sarò il frutto di un esperimento fatto dagli olandesi nel XVI secolo – la pastinaca, le radici e le insalate, oltre a cipolle, agli e porri. Così come per i legumi, queste specie vegetali dovevano fare da condimento o accompagnamento ad altri tipi di pietanze, come zuppe, pulmenta e carni.
Le spezie che servono in molti casi ad aromatizzare le pietanze, vedono un moltiplicarsi e una notevole differenziazione in questi secoli.
Se la cucina romana usava solo il pepe, il quadro si arricchisce progressivamente e già in una delle più importanti fonti di questo periodo, gli Excerpta di Vinidario nuove spezie affiancano il pepe: tra di esse lo zenzero e lo zafferano ma anche chiodi di garofano, cannella e coriandolo.
Questo breve accenno alle spezie e ai condimenti potrebbe chiudere questo piccolo contributo sull’alimentazione, ma non mette un punto e a capo alla ricerca e alla sperimentazione che il progetto Presenze Longobarde sta continuando e cercando di divulgare attraverso laboratori, serate a tema ed eventi ricostruttivi.
Rimane molto altro ancora da cercare, provare e confrontare con i dati archeologici e le fonti storiche, poiché il lavoro del ricostruttore non si ferma alla semplice immaginazione: egli recupera i dati e propone delle soluzioni in chiave scientifica. Ed è sempre dovere di chi si affaccia a questa disciplina, cercare di divulgare e condividere le proprie ricerche in modo da generare conoscenza e partecipazione, coinvolgendo il ricercatore accademico e il semplice appassionato.
Valeria Cobianchi, Membro fondatore di Presenze Longobarde
valeria.cobianchi@virgilio.it
Bibliografia essenziale
Fonti
- Antimo, De observatione ciborum. Epistula Anthimi uiri inlustris comitis et legatarii ad gloriosissimum Theudoricum regem Francorum de obseruationem ciborum, testo originale disponibile on line: http://www.intratext.com/IXT/LAT0987/_P1.HTM
- Apicio, Apicii Decem libri qui dicuntur De re coquinaria et excerpta a Vinidario conscripta, a cura di Mary Ella Milham, Leipzig 1969.
- Cronaca di Novalesa, a cura di Gian Carlo Alessio, Torino 1982.
- Eginardo, Vita di Carlo magno, a cura di Valerio Mariucci, Salerno 2006.
- Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, a cura di Angelo Valastro Canale, voll. II, Torino 2008.
- La regola di Benedetto: introduzione alla vita cristiana, a cura di Georg Holzherr, Bologna 2012
- Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di Livia Capo, Milano 2006.
- Bedini, E, Bertoldi, Aspetto fisico, stile di vita e stato di salute del gruppo umano, in L. Pejrani Barico (a cura di), Presenze Longobarde. Collegno nell’alto Medioevo Torino 2004, pp. 217-236.
- Di Martino, Le analisi archeozoologiche: consumi alimentari e offerte funerarie, in S. Lusuardi Siena, C. Giostra (a cura di), Archeologia medievale a Trezzo sull’Adda: il sepolcreto longobardo e l’oratorio di San Martino, le chiese di Santo Stefano e San Michele in Sallianense, Milano 2012, pp. 321-326.
- Montanari, Gusti del Medioevo. I prodotti, la cucina, la tavola, Bari 2012.
- Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979.
- Plouvier, L’alimentation carnée au Haut Moyen Age d’après le De observatione ciborum d’Anthime et les Excerpta de Vinidarius, “Revue belge de philologie et d’histoire”, vol. 80, numero 80-4, 2000, pp. 1357-1369
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