La storia della vite e del vino accompagna passo passo la storia dell’uomo nel vicino Oriente e in Europa. L’utilizzo della vite selvatica prima e la sua domesticazione poi, fino alla tecnica vinicola, sono tappe di un meraviglioso viaggio attraverso mitologia, arte e vicende dei popoli. Iniziamo però da un po’ prima della comparsa dell’uomo.
Tracce fossili e comparsa dell’uomo
In quanto specie vegetale la vite risale a tempi geologici, come documentato da impronte di foglie di Vitis sezannensis rinvenute in strati di tufo paleocenico nel sito di Sézannes, in Francia, che data fra 59 e 55 milioni di anni fa circa. Ma altre tracce fossili di piante vitacee sono state trovate in strati risalenti al Cretaceo, circa 140 milioni di anni fa.
La famiglia delle Vitacee era composta da numerose specie di vite denominate ancestrali o geologiche, perché documentabili solo dai fossili, molte delle quali oggi scomparse. Le specie del genere Vitis sopravvissute anche oltre l’ultima glaciazione sono circa 60. Una di queste si salvò nell’area pontica, tra il Caucaso, il Mar Caspio e il Mar Nero ed è la Vitis Vinifera. La vite comune sarebbe l’unica specie della serie Vinifera (o Viniferae) e si identifica con la vite di origine euroasiatica perché è ivi presente anche come specie spontanea. Nell’ambito della specie si distinguono due sottospecie:
- Vitis vinifera subspecie sativa, è la sottospecie che comprende le varietà coltivate denominate, nel lessico tecnico e scientifico della Viticoltura, vitigni.
- Vitis vinifera subspecie sylvestris, è la sottospecie spontanea, dal punto di vista agronomico è del tutto priva d’interesse.
La vite selvatica (Vitis vinifera subspecie sylvestris) attualmente cresce spontanea in boschi riparii d’ambiente mediterraneo, querceti con salici e pioppi, ma anche in ambienti centro-europei, come il Delta del Danubio. Il suo areale si estende dal Portogallo al Tagikistan, lungo i maggiori fiumi continentali dell’Europa occidentale e nell’Africa del Nord.
Nel Valdarno Superiore, intorno a Montevarchi, sono stati ritrovati in depositi di lignite, reperti fossili di tralci di vite (Vitis vinifera) risalenti a 2 milioni di anni fa.
Più recenti vinaccioli fossili sono stati ritrovati in Francia, nel sito paleolitico di Terra Amata, Nizza, risalente a circa 400.000 anni fa, evidenza che anche Homo heidelbergensis, un nostro possibile antenato, raccogliesse e consumasse uva selvatica. A 19.400 anni fa circa risale il sito israeliano denominato “Ohalo II”, un accampamento stagionale di cacciatori raccoglitori paleolitici, posto sulle sponde del biblico Lago di Tiberiade, attualmente sommerse; la permanenza in condizioni subacquee ha permesso la conservazione di resti vegetali, fra cui vinaccioli di Vitis sylvestris, assieme a semi di orzo e frumento selvatico.
Anche nella grotta di Franchthi, in Grecia, sono stati trovati vinaccioli di Vitis sylvestris in strati risalenti a circa 12.000 anni fa, quando il sito era frequentato da cacciatori-raccoglitori mesolitici.
Ad Atlit – Yam, sito neolitico della costa israeliana a sud di Haifa e datato fra 6900 e 6300 anni a.C., sono stati trovati i resti di un pozzo il cui interno era ricco di residui, fra cui vinaccioli di Vitis sylvestris, solo parzialmente simili a quelli di vite domestica.
In Italia esempio rilevante è il sito de “La Marmotta” sul Lago di Bracciano, Roma, datato fra il 5750 e il 5260 a.C.; lì sono stati ritrovati frammenti di Vitis sylvestris con caratteri di “embrionale forma di coltivazione”.
Anche in Friuli, in provincia di Udine, a Sammardenchia – Cûeis, un sito datato tra il 5600 e il 4500 a.C. circa ha restituito grandi quantità di resti fra cui vinaccioli di vite selvatica.
Altri resti di vite selvatica si sono rinvenuti nei siti di Piancada (Udine) e Lugo di Romagna (Ravenna), entrambi risalenti al Neolitico antico.
Per l’elenco completo dei numerosi siti italiani rimandiamo alla bibliografia. Qui ci basta ricordare che la vite selvatica era disponibile alle prime comunità neolitiche in varie zone della penisola.
Appare evidente quindi che nel mesolitico e nel neolitico la vite selvatica fosse conosciuta e il suo frutto spontaneo, ma commestibile, venisse utilizzato nell’alimentazione umana.
La domesticazione della vite: perché, come, dove e quando?
Ma quando accadde che l’uomo addomesticò la vite e scoprì la possibilità di produrre il vino? Se ci chiediamo che cosa spingesse l’uomo o la donna del Paleolitico ad arrampicarsi pericolosamente sugli alberi più alti della foresta, solo per riuscire a raccogliere queste bacche rosse, apprezzate dagli uccelli ma povere di potere nutritivo, la risposta potrebbe essere la cosiddetta “Ipotesi paleolitica” formulata dall’enoarcheologo Patrick McGovern: attratti dai colori accattivanti degli acini, o semplicemente imitando gli uccelli, alcuni uomini primitivi raccolsero qualche grappolo d’uva selvatica, rimanendo sedotti dal suo gusto aspro e zuccherino. Probabilmente ne deposero diversi grappoli in qualche recipiente di pelle, legno o pietra e dopo qualche giorno, sotto il peso dei grappoli sovrastanti, dagli acini di quelli più bassi trasudò del succo. Poiché in natura i lieviti della fermentazione vivono proprio sulle bucce degli acini e sono presenti nell’aria sotto forma di spore, probabilmente quel succo produsse una sorta di vino spontaneo e primordiale a basso tenore alcolico. Una volta mangiati tutti gli acini, il nostro antenato paleolitico assaggiò più o meno volontariamente quella bevanda, restando avvinto da una piacevole euforia che gli instillò un unico pensiero fisso: berne ancora. In assenza di recipienti idonei, quel “Beaujolais nouveau dell’Età della pietra”, come l’ha definito scherzosamente McGovern, doveva essere consumato rapidamente, prima che si trasformasse in aceto.
Le cose cambiarono quando, tra 12 e 10 mila anni fa, le popolazioni umane divennero stanziali, abbandonando il nomadismo e dando vita a insediamenti permanenti che sorsero con la nascita dell’agricoltura. Questo fenomeno, noto come la “rivoluzione neolitica”, ebbe come conseguenza l’aumento della densità di popolazione e la necessità di conservare il cibo più a lungo. Fra le altre cose, questi popoli neostanziali dovettero trovare dei modi per assicurarsi un approvvigionamento sicuro di uva. Come?
L’ipotesi ermafrodita
I tratti morfologici delle due sottospecie sylvestris e sativa della vite sono spesso sovrapponibili, e la stessa validità di questa distinzione botanica potrebbe essere opinabile, poiché è probabile che le differenze siano scaturite più dalla selezione umana che da un processo evolutivo naturale. La caratteristica in cui la vite selvatica differisce di più da quella coltivata è il sesso dei fiori: la sylvestris è una sottospecie dioica, il che significa che tutti i fiori della stessa pianta sono o staminati (maschili) o pistillati (femminili). La sativa, invece, è una pianta ermafrodita, vale a dire che possiede fiori sia staminati che pistillati. Tuttavia, anche una piccola percentuale della sylvestris è ermafrodita, e sicuramente fu da questo “vivaio” che trasse origine la domesticazione umana della vite.
Per garantire un approvvigionamento sufficiente di uva ed evitare il pericolo di arrampicarsi sugli alberi, ben presto l’uomo o la donna del Mesolitico o Neolitico cercò di coltivare la vite selvatica, o seminandone i semi, o interrandone delle talee, proprio come la vitis vinifera fa spontaneamente in natura nel processo chiamato “propaggine”. Scegliendo una pianta maschile, la vite non avrebbe mai fruttificato, e quindi sarebbe stata presto abbandonata. Scegliendo una pianta femminile, questa avrebbe fruttificato solo se nelle sue vicinanze si fosse trovata una pianta maschile in grado di fecondarla per impollinazione, altrimenti anche questa pianta sarebbe rimasta sterile e inutilizzabile. Ma scegliendo una pianta ermafrodita, la “vendemmia” era assicurata ogni anno, infatti gli acini di solito si producono per autogamia ovvero autofecondazione della stessa pianta. Proprio quelle piante furono conservate e coltivate. È per questo che, con molta probabilità, la domesticazione della vite avvenne partendo da quel 2 o 3 percento di viti selvatiche ermafrodite che di solito si osservano nelle popolazioni naturali, ed è questa l’“ipotesi ermafrodita” sulle origini della viticoltura. Successivamente, le viti addomesticate furono propagate per seminazione o per talea, e per vari millenni l’uomo ha continuato a selezionare attivamente quelle con gli acini e i grappoli più grandi, col contenuto zuccherino più alto o con particolari aromi, dando vita a quell’enorme molteplicità morfologica che oggi osserviamo nelle circa 10.000 varietà di uva conosciute sul Pianeta.
Dove fu addomesticata la prima vite?
La maggior parte degli ampelografi (dal greco ampelos = vite, graphos = descrizione), archeologi, botanici e genetisti della vite concordano che le origini della viti-vinicoltura, che comprende sia la coltivazione della vite, sia la produzione del vino, siano da collocare in quello che si potrebbe chiamare “il triangolo fertile della vite”, un vasto altipiano che si estende tra la catena del Tauro nella Turchia orientale, i versanti settentrionali dei monti Zagros nell’Iran occidentale, e il massiccio del Caucaso (Georgia, Armenia e Azerbaigian). Il noto botanico e genetista russo Nikolai Ivanovich Vavilov postulò che l’area di maggiore diversità morfologica corrisponde di solito al punto di origine di una coltura. Partendo da quest’ipotesi, il suo allievo Aleksandr Michailovich Negrul giunse alla conclusione che la “terra d’origine” della viticoltura fosse o la regione transcaucasica, ossia l’area compresa fra il mar Nero e il mar Caspio, che si estende dal Caucaso Maggiore ai confini turco e iraniano, comprendendo le repubbliche della Giorgia, Armenia e Azerbaigian, oppure l’Anatolia meridionale, la parte asiatica della Turchia, poiché è in queste due regioni che si osserva la maggiore diversità naturale all’interno della specie Vitis vinifera. Certo è che varie analisi del DNA sulle correlazioni fra le sottospecie sylvestris e sativa su campioni prelevati in tutti i paesi eurasiatici hanno confermato l’ipotesi dell’area mediorientale come zona d’origine della domesticazione della vite. Inoltre, dalle indagini focalizzate sul “Triangolo fertile della vite” è emersa la stretta parentela genetica tra le viti selvatiche locali e le varietà coltivate tradizionalmente in Armenia, Georgia e anche nell’Anatolia meridionale, avallando l’idea che proprio le sorgenti del Tigri e dell’Eufrate nel massiccio del Tauro siano la zona più probabile in cui collocare la prima domesticazione della vite.
Quest’ipotesi si concilia bene col fatto che in questa parte dell’antica Mesopotamia prosperano tuttora popolazioni naturali di vite selvatica, e con una moltitudine di tracce rinvenute da McGovern risalenti al Neolitico (10500-6000 anni fa) e alla prima Età del Bronzo (10.000 – 5.000 anni fa) sulla presenza di Vitis vinifera sia selvatica che coltivata nei siti archeologici ubicati lungo i corsi superiori del Tigri e dell’Eufrate, alle pendici del Tauro (per esempio Çayönü a Nord-Ovest di Diyarbakır, Hacinebi, Hassek Höyük, Korucutepe, Kurban Höyük, Tepecik e altri). Della stessa area fa parte la regione di Karacadağ, nella parte settentrionale della “Mezzaluna fertile”, che da recenti studi archeologici e genetici emerge come nucleo centrale della domesticazione di diverse colture agricole primarie, come il farro monococco, il pisello, il cece, la lenticchia, il farro dicocco e la segale.
Quando fu domesticata la prima vite?
Probabilmente non lo sapremo mai con esattezza, ma le analisi dei reperti archeologici di uva e delle antiche anfore potrebbero fornire qualche indizio. I reperti di vite o uva rinvenuti negli scavi archeologici sono di solito dei semi carbonizzati e frammenti di legno bruciacchiati, che raramente consentono di distinguere fra sottospecie selvatiche e coltivate. I semi della vite selvatica di solito appaiono rotondi e con un becco corto, mentre quelli della sottospecie coltivata sono più a forma di pera, con un becco ben sviluppato, ma purtroppo il processo di carbonizzazione e l’enorme variabilità all’interno delle due sottospecie fanno sì che la mera morfologia dei semi non si possa considerare una caratteristica distintiva sicura. Di semi carbonizzati di vite ne sono stati rinvenuti in molti scavi archeologici sia in Europa (Grecia, ex Jugoslavia, Italia, Svizzera, Germania, Francia e Spagna), sia nell’Asia minore, ma è assai probabile che questi reperti antichi provengano da acini di uva selvatica che si raccoglievano molto prima della domesticazione della pianta.
Secondo l’ampelografo georgiano Revaz Ramishvili, sei semi di 8000 anni fa (tardo Neolitico) rinvenuti nel sito di Shulaveris-Gora sulle colline a Sud di Tbilisi, uno degli insediamenti permanenti più antichi conosciuti in Georgia, hanno la forma caratteristica della sottospecie coltivata, e potrebbero costituire una prova dei primi semi addomesticati di Vitis vinifera subsp. sativa, ma la possibilità di identificare in modo affidabile questi reperti carbonizzati è ancora controversa. Per gli archeobotanici Daniel Zohary e Maria Hopf, i semi di uva rinvenuti nel sito dell’Età del bronzo (ca. 5700-5200 anni fa) di Tellesh-Shuna (Giordania settentrionale) costituirebbero la più antica prova convincente della coltivazione della vite, poiché la sottospecie vitis vinifera sylvestris non è presente nella Giordania di oggi. Tuttavia, benché sia piuttosto improbabile che queste regioni oggi così aride, cinque o seimila anni orsono fossero un habitat idoneo alla vite, si potrebbe obiettare che potrebbe essere scomparsa dal territorio solo in tempi recenti. Molto meno opinabili, invece, sono i reperti rinvenuti in diversi siti archeologici risalenti alla prima Età del bronzo (circa 5400-5200 anni fa) a Gerico (Palestina), Lachish (Israele), Numeira (Mar Morto, forse l’antica Gomorra), Arad (Israele) e Kurban Höyük (nei pressi di Urfa, nella Turchia meridionale), dove sono stati riportati alla luce non solo semi carbonizzati, ma anche frammenti di tronco di vite bruciacchiati e interi acini essiccati, da cui emergono prove affidabili della coltivazione di queste piante.
Tuttavia, i primi tentativi di coltivazione della vite devono essere molto più antichi rispetto a questi reperti, visto che le prime prove chimiche della presenza di vino risalgono al sesto millennio avanti Cristo. Utilizzando la spettrometria a raggi infrarossi per rintracciare la presenza di acido tartarico nei depositi delle anfore (una sostanza che dimostra la presenza di uva), l’enoarcheologo Patrick McGovern e altri autori hanno scoperto che il vino veniva già prodotto intorno a 7400-7000 anni fa a Hajji Firuz Tepe (Iran settentrionale, monti Zagros), una zona collocata nella fascia più periferica dell’area di distribuzione attuale della vite selvatica.
Le anfore in questione provengono da una residenza del Neolitico, dove giacevano sul lato, interrate nel pavimento della “cucina”, ed erano provviste di tappi di terracotta e conteneva resina, il che dimostra che contenevano vino, e non mero succo d’uva. La resina infatti funge da conservante. Altre tracce di vinificazione sono emerse da analisi chimiche eseguite su alcuni campioni prelevati nel sito di Shulaveris-Gora in Georgia. In tempi molto recenti, gli scavi condotti in un sotterraneo di Areni, nell’Armenia sudorientale, hanno rivelato la presenza del più antico impianto di vinificazione mai scoperto sul Pianeta, un reperto confermato da analisi di cromatografia liquida e spettrometria di massa, risalente alla prima Età del rame, ossia a circa 6000 anni fa (Barnard et al. 2011).
Conclusioni sulla domesticazione
Benché i genetisti, gli archeologi e i linguisti tendano a far coincidere la culla della domesticazione dell’uva con l’Anatolia meridionale, anche la regione transcaucasica resta un candidato possibile: lo dimostrano antichi reperti di uva rinvenuti in siti archeologici del Neolitico a Chokh nel Dagestan, a Shomu-Tepe nell’Azerbaigian e a Shulaveris-Gora (nei pressi di Tbilisi) nella Georgia (McGovern 2003). Tracce chimiche della produzione di vino risalenti a circa 6000 anni fa sono state trovate recentemente nella zona vinicola di Areni (Yerevan sudorientale) in Armenia. (Barnard et al. 2011).
Tracce mitologiche e letterarie
Nei miti e nelle leggende di gran parte delle società pretecnologiche sono presenti racconti che elaborano storie tese a fornire spiegazioni di fenomeni antichissimi, come la “creazione del mondo” o le principali invenzioni. Al nostro scopo è veramente interessante capire come la presenza della vite e del vino siano presenti nei più antichi testi per dare la misura della “confidenza” degli antichi scrittori con questo alimento.
In questi miti compare quasi sempre l’eroe che compie l’impresa, spesso un re o un semidio. Il più antico di questi racconti è l’Epopea di Gilgamesh, re di Uruk, città-stato sumerica posta a 300 chilometri a sud di Bagdad. Tra le diverse versioni pervenuteci, incise in caratteri cuneiformi su tavolette d’argilla, la più antica risale al XVIII secolo a.C. e vi si narra che Gilgamesh, sconvolto dalla morte del suo amico Enkidu, fosse partito alla ricerca del segreto dell’immortalità detenuto da Utnapishtim di Shuruppak, il Noè mesopotamico.
Nel suo viaggio mitico Gilgamesh incontra Siduri, la donna del vino, simbolica “ostessa sacra” secondo McGovern (2004) che vive in un giardino vicino al mare, forse un vigneto regale cintato. Siduri cerca di dissuaderlo dalla ricerca dell’immortalità, esortandolo a godere delle gioie della vita. Il vino dunque è già citato in un mito elaborato oltre 4000 anni fa, come mediazione terrena rispetto ad aspirazioni sovrannaturali.
Passeggiando per quel giardino incantato, Gilgameš giunse sulla riva del mare, dove trovò la casa di Siduri, la donna della vigna, colei che faceva il vino. La donna sedeva nel giardino con la coppa d’oro e i tini d’oro che gli dèi le avevano donato. Non appena vide Gilgameš, si spaventò, perché egli era sporco e coperto di pelli, e corse a nascondersi in casa. Ma Gilgameš infilò rapido il piede tra lo stipite e la porta: ― Fanciulla che fai il vino, perché spranghi l’uscio? Abbatterò il tuo uscio e sfonderò la tua porta, io sono il re di Uruk, quel Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro del Cielo.
Fece Siduri: ― Se tu sei quel Gilgameš che ha ucciso Humbaba e il Toro del Cielo, perché sono emaciate le tue guance e vi è disperazione nel tuo cuore?
― E perché non dovrebbero essere emaciate le mie guance e non dovrebbe esservi disperazione nel mio cuore? Il mio amico che mi era molto caro, Enkidu, il fratello che amavo, la fine di tutti i mortali l’ha raggiunto. A cagione di mio fratello ho paura della morte. A cagione di mio fratello vado ramingo e non trovo riposo. Ma ora, fanciulla che fai il vino, ora che ho visto il tuo volto, fa’ che io non veda il volto della morte da me tanto temuta.
E ancora quando Gilgamesh incontra finalmente Utnapishtim, l’equivalente del biblico Noè, questi gli racconta della costruzione della nave approntata per salvarsi dal Diluvio:
“Come approvvigionamento macellai buoi,
giorno dopo giorno uccisi pecore;
mosto, birra, olio e vino
gli artigiani bevvero come fosse acqua del fiume,
essi celebrarono una festa come se fosse la festa del Nuovo Anno!”
Altra figura mitologica è Dioniso, il Bacco dei romani, la divinità che presiede a tutto il ciclo del vino, dalla vendemmia al suo consumo rituale.
Evoluzione di un più arcaico dio della fertilità e della vegetazione, Dioniso viene raffigurato con il capo cinto da pampini, una coppa in mano e accompagnato dalle Menadi, le latine Baccanti, durante i cosiddetti “misteri dionisiaci”, processioni che culminavano in comportamenti estatici simili a trance sciamaniche. Il culto dionisiaco, forse originario della Tracia o della Creta minoica, migrò in seguito nell’Egeo proprio con la diffusione della viticoltura. Ne parleremo ancora in seguito.
Nella mitologia egizia la viticoltura, avviata nel delta del Nilo già nel 2500 a.C. circa, era sacra ad Osiride: lo si celebrava ad Abido per la festa del nuovo anno, invocandolo come “dio del vino durante l’inondazione”. Nel mondo egizio in particolare il vino è accessibile solo a sacerdoti e appartenenti alla casa del Faraone. Il popolo comune e gli schiavi bevevano birra.
La viticoltura è tema rilevante nella stessa Bibbia in cui si narra che dopo il diluvio universale, approdando sul monte Ararat, Noè “coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda”(Genesi, 9, 20 – 23).
Vogliamo sottolineare che il monte Ararat, sebbene ne sia ancora in discussione l’identificazione precisa, si colloca nell’area indicata come originaria della Vite, come dicevamo a proposito della cosiddetta “ipotesi di Noè” sulla domesticazione della vite.
In altre storie bibliche la vigna è metafora di Israele, come nel Libro di Isaia, in cui si descrive un impianto di vite domestica:
“… possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino”.
Nel Libro di Ezechiele si legge, invece, la descrizione di una vite selvatica:
“Tua madre era come una vite piantata vicino alle acque. Era rigogliosa e frondosa per l’abbondanza dell’acqua; ebbe rami robusti buoni per scettri regali; il suo fusto si elevò in mezzo agli arbusti mirabile per la sua altezza…” (Ezechiele 19, 10 – 11).
Poiché si stima che questi testi biblici siano stati scritti fra i secoli VIII e VI a.C., si può dedurre che tali descrizioni ricordino la compresenza di viti sia domestiche che selvatiche nei paesaggi protostorici palestinesi del I millennio a.C.
Tracce linguistiche
Sulla etimologia della parola vino gli studiosi sono in disaccordo: secondo una delle teorie più diffuse deriverebbe dal sanscrito vena, termine formato dalla radice ven, che significa “amare”, non a caso, dalla stessa radice deriva Venus, Venere, oppure dall’antico ebraico iin che attraverso il greco oinos sarebbe arrivata ai latini. Altri invece sostengono che derivi da una radice sanscrita vi (attorcigliarsi) argomentando che il vino sia il frutto della pianta che si attorciglia.
Cicerone attribuisce a vinum un’etimologia latina, facendolo derivare da vir (uomo) e vis (forza).
E’ questa una di quelle parole che i linguisti sogliono definire “viaggiante”, “fluttuante”, ciò in relazione alla notevole diffusione nel corso dei millenni tra popoli, razze e lingue diverse, in un’area estremamente vasta che va dall’India al Mediterraneo, presso le località ove si sviluppò la viticoltura. Le somiglianze dei termini sono considerate collegamenti “orizzontali”, ovvero apparentamenti linguistici che avvengono quando un gruppo sociale trasmette a un altro delle innovazioni, come nuove tecnologie o nuovi prodotti.
Tra le diverse teorie quella che attualmente risulta essere una delle più accreditate è la seguente.
La parola vino nelle varie configurazioni attualmente in uso (francese vin, inglese wine, tedesco wein, russo Винó, spagnolo vino, ecc.) deriva dal latino vinum, primo riscontro di assoluta certezza.
Nei dialetti greci jonico e attico il termine per indicare il vino è Οίνός (pronuncia oinos) che ha dato luogo al prefisso eno: nel nostro linguaggio e nelle altre lingue occidentali indica attività od oggetti attinenti al vino, ad es. enogastronomia, enoteca, enologo, non costituisce però il nome del vino come prodotto.
In realtà la parola vinum deriva da un altro dialetto greco, quello eolico, in cui vino si dice Fοἶνος (pronuncia foinos-voinos). Il dialetto eolico era in uso prevalentemente nell’isola di Lesbo ma pare ve ne siano tracce anche nel lineare B minoico. Il lemma si differenzia dall’attico-jonico per la presenza ad inizio di parola del digamma eolico F che fu ereditato in epoca imprecisata dall’etrusco nel fonema V e diede origine al corrispondente segno latino V.
Sembra quindi che dal mondo cretese il termine sia passato all’eolico dell’isola di Lesbo e attraverso l’etrusco sia giunto fino al latino, che ha poi costituito la base per tutte le lingue europee occidentali.
Questa teoria ricalca come vedremo molto più da vicino i rilievi archeologici e letterari del percorso del vino e della viticoltura, rendendosi, allo stato attuale delle conoscenze, la tesi favorita.
La coltivazione e la diffusione
Le prime comunità sedentarie scelsero ambienti spesso prossimi a corsi d’acqua e adatti allo sfruttamento selettivo di vegetali spontanei ma commestibili, come la vite selvatica, una liana rampicante che ama ambienti umidi e fertili, nei quali si sviluppa come un’infestante. In simili aree, dette di “para-domesticazione”, le viti erano protette e favorite dai primi agricoltori anche con disboscamenti selettivi.
Progressivamente si passò alla domesticazione che come abbiamo visto avvenne nell’area Caucasica attorno al V millennio a.C.
Da qui la coltivazione della vite si sarebbe diffusa secondo tre percorsi.
- Il più antico va dal Monte Ararat verso la Mesopotamia, l’Egitto e la Grecia sotto l’influenza di vari popoli; secondo alcuni la vite sarebbe invece arrivata in Grecia più direttamente attraverso l’Anatolia.
- Il secondo percorso parte dalla Grecia e va verso il mediterraneo Occidentale: Sicilia e Italia del Sud, Francia e Spagna, sotto l’influenza dei Greci e dei Fenici.
- Il terzo percorso va dalla Francia verso il nord dell’Europa, principalmente attraverso il Rodano, il Reno ed il Danubio, sotto l ‘influenza romana.
Il viaggio della vite: 1. Dal Monte Ararat alla Grecia
Requisito fondamentale della viticoltura fu il passaggio da forme agricole itineranti a coltivazioni stabili, che implicavano l’uso della rotazione e la pratica dell’aratura a trazione animale, esperienze affermatesi in Mesopotamia fra il 4100 e il 2900 a.C.
Traccia di questa variazione culturale è nella mitologia sumera: una delle divinità sumeriche era Geshtinanna, in origine dea della vegetazione, divenuta poi dea della vite e del vino, il cui nome è traducibile come “Vite del cielo” o “Vite frondosa”.
Nel III millennio a.C., con l’affermarsi delle prime città stato, furono costruite vaste canalizzazioni per poter irrigare le siccitose pianure alluvionali mesopotamiche. Crebbe, perciò, la produzione sia cerealicola che di frutteti, in concomitanza con la produzione di recipienti da vino di ogni sorta. Tali fenomeni si innescarono anche nella Siria attuale: nel III millennio a.C. vi sorsero altre città stato, come Mari ed Ebla, che controllava i commerci di oro, argento, rame, stagno, oltre a quello del legname proveniente dalle vicine montagne dell’Antilibano, e del vino. Fin dal 2300 a.C. circa ad Ebla si coltivavano viti e palme da dattero domesticate.
Un’altra città sumerica, Kish, evoca l’importanza socialmente simbolica della vite e del vino raggiunta già nel 2400 a.C., sotto il regno di Ku-Bau. Questa è la prima donna regnante registrata nella storia e unica rappresentante della Terza dinastia di Kish. Di lei si ricorda che fu una “proprietaria di taverna”.
Nella Mesopotamia costellata da una fitta rete di centri politici ed economici il vino va consolidando la propria presenza nella tradizione alimentare, religiosa e medica.
La valenza sacra e regale è ben documentata dal famoso “Stendardo di Ur”, risalente al 2500 a.C. e conservato al British Museum, dove è raffigurato un banchetto in cui re e dignitari reggono calici da libagione, un rituale che anticipava di quasi 2000 anni il simposio dei greci e degli etruschi.
Come erano arrivati, viti e vino, in Mesopotamia dai Monti Zagros e dalla Transcaucasia? Il percorso più ovvio era la discesa lungo l’Eufrate. Vino, “uva secca, vinaccioli e tralci di vite” arrivavano in Mesopotamia su zattere, stabilizzate con otri di pelle gonfiati.
Anche le città sulla costa palestinese, come Aleppo, citata negli archivi di Ebla del II millennio a.C., coltivavano le viti, scambiando il vino con città mesopotamiche, come Mari.
Egitto – Le 700 giare da vino ritrovate nella tomba del “Re Scorpione” (3150 a.C.) ad Abido, in Egitto, testimoniano commerci di vini pregiati importati dalla costa libanese, la biblica Terra di Canaan, mentre nelle pianure alluvionali del delta est del Nilo esistevano, fino dal 2700 a.C., vigne reali coltivate “a pergola”. Scene di vendemmia, pigiatura, “torchiatura a sacco” e deposito in cantina delle anfore sono raffigurate in affreschi datati fra il 2050 e il 1500 a.C.
Le anfore vinarie trovate nella tomba di Tutankhamon (1323 a.C.) recavano sui tappi d’argilla l’anno e l’area di produzione, fra il 1581 e il 1078 a.C. Sebbene il vino rimanesse una bevanda d’élite e regale, altre zone viticole si svilupparono in tutto il delta, a Menfi e nelle oasi desertiche occidentali.
Area Egea – Nel II millennio a.C. i viticoltori costieri del Levante intrecciarono contatti anche con Cipro, mentre la crescente domanda di metalli innescata già dall’età del Bronzo (IV – III millennio a.C.) dava nuovi impulsi agli scambi marittimi egei.Nell’isola di Creta, dove i più antichi vinaccioli risalgono al 4800 – 4500 a.C., dal 2900 al 1500 a.C. circa si sviluppò un florido impero marittimo, purtroppo più volte colpito da gravi sismi e dalla grande eruzione vulcanica che devastò l’isola di Santorini nel 1627 a.C. L’importanza della viticoltura cretese è testimoniata dal rinvenimento a Vathypetro di un palazzo minoico
(1580 – 1550 a.C.), dotato di spazi per la pigiatura dell’uva.
Quando la potenza minoica declinò, Creta venne occupata da greci del Peloponneso, provenienti dall’Argolide e noti come Micenei, in quanto la città di Micene era, a quel tempo, il centro economico e culturale più rilevante della Grecia continentale.
Essi, influenzati dalla cultura minoica, già dal XVI secolo avevano iniziato ad espandersi nel Mar Egeo.
Anche questa cultura era dedita alla coltivazione dell’uva da vino. La documentazione iconografica e letteraria (le numerose attestazioni nell’Odissea), così come quella archeologica (i ritrovamenti di ceramica micenea), dimostrano la frequentazione delle veloci navi micenee per il trasporto del vino (Od. IX 151-171, Od. IX, 194-213) nell’ultimo quarto del XII secolo a. C. lungo le coste italiane dell’Adriatico, del Tirreno e della Sicilia.
Il viaggio della vite: 2. Dalla Grecia al Mediterraneo Occidentale
I Micenei sono considerati i primi mercanti e naviganti egei ad aver esplorato il Mediterraneo occidentale, per intercettare, via mare, le risorse metallifere dei Balcani e delle zone a nord del Danubio, alternative a quelle egeo – levantine già monopolizzate dai minoici fin dalla prima metà del II millennio a.C.
Le più antiche ceramiche egeo – micenee trovate in Calabria e in Sicilia risalgono al XVII – XIV secolo, mentre quelle finora rinvenute in siti della costa pugliese datano al XV secolo, con insediamenti a Taranto, nel sito di Scoglio del Tonno, e a Roca Vecchia, in provincia di Lecce a testimonianza della loro presenza. Dal 1200 a.C. circa, con il declino della potenza micenea, i mercanti egei intensificarono le frequentazioni
delle coste ioniche e centro-adriatiche, introducendovi non solo merci esotiche, ma anche ceramisti specializzati che attivarono la produzione di vasellame italo-miceneo.
Il II millennio si conclude in Oriente con un grave collasso delle città-stato, chiamato dagli storici la crisi del 1200. Nessuna regione rimane immune da distruzioni e incendi e il prospero commercio delle anfore cananee si conclude drammaticamente. Il commercio del vino riprende con i Fenici e coincide con la ripresa dell’attività mercantile della città di Tiro (IX-VIII secolo a. C.). Le anfore fenicie, molto simili a quelle cananee, sono sempre presenti nei ritrovamenti archeologici dei mari occidentali. Anche i Greci lentamente iniziarono a risvegliarsi nel corso del IX secolo a. C., grazie ai frequenti contatti che stabilirono in quel periodo con le coste dell’Asia Minore, della Siria e con le regioni caucasiche sul Mar Nero. L’attività commerciale, iniziata nel mare Egeo, si sviluppò successivamente nel mare Ionio e nel mare Tirreno, molto spesso sulle rotte e verso gli stanziamenti dei Fenici in Occidente. Seguendo un cammino cronologico, alla prima colonizzazione fenicia, peraltro poco nota, e ad un commercio del vino legato ad utilizzi elitari e religiosi, segue una fase di espansione commerciale greca.
Mondo greco
Sappiamo che anche in Fenicia, attorno al X sec a.C., alcuni centri erano famosi come ottimi produttori di vino: Biblo, Tripoli, Tiro, Berito. In particolare, secondo Plinio il Vecchio, che alla vite e al vino dedica l’intero XIV libro della sua Naturalis Historia, l’uva di Berito era nota per la sua dolcezza; dalla sua descrizione si può desumere che questa produzione somigliasse nella conservazione e nella lavorazione a quella della nostra “uva passita”. Tanto era amato il vino fenicio che Erodoto ricorda la non occasionale esportazione in Egitto del vino fenicio, considerato buono tanto quello greco.
Come abbiamo visto seguendo le tracce mitologiche e linguistiche furono i Greci ad introdurre la vitivinicoltura in Europa, già in epoca minoica. Le testimonianze in questo contesto sono attestate dal ritrovamento di frammenti di boccali al cui interno le analisi microbiologiche hanno rilevato la presenza di particelle di vino.
Esiodo, in Le opere e i giorni (VIII – VII sec. a.C.), descrive in dettaglio pratiche di vendemmia e di vinificazione e numerosi sono i riferimenti alla vite e al vino anche in Omero. Il grande sviluppo che questa bevanda ebbe in tutta la Grecia Antica fu agevolato dalla considerazione che il consumo del vino fosse sintomo di civiltà, da contrapporsi con il mondo barbaro, che invece era solito consumare la birra.
La coltivazione della vite era diffusa uniformemente in tutto il mondo greco, tanto che anche gli ecisti, condottieri scelti per guidare le colonizzazioni, che si imbarcavano dalla madrepatria per andare a fondare nuove colonie in Italia meridionale o sulle coste turche portavano con sé tralci di vino da impiantare nelle nuove terre da colonizzare, da cui il mito di Enotro di cui parleremo più diffusamente tra poco. Nel mondo greco il vino era considerato come un dono degli dei: l’introduzione della coltura della vite fra gli uomini veniva attribuita a Dioniso, divinità legata al vino, e in particolare agli effetti che il vino suscitava sulla lucidità mentale.
Secondo il mito Dioniso era figlio di Zeus e Semele. La moglie di Zeus, Era, avendo scoperto l’ennesimo tradimento del compagno, indusse Zeus a manifestarsi col suo vero aspetto a Semele, la quale morì rimanendo folgorata dall’apparizione. Zeus praticò quindi una specie di parto cesareo alla donna gravida di suo figlio e ne portò a termine la gestazione inserendolo nella propria coscia. Quando fu compiuto il nono mese il bambino nacque perfetto e completo, con due piccole corna sulla fronte. Venne quindi affidato a Sileno e, divenuto ormai adulto, Era gli concesse di vivere, ma lo rese folle. Seguono poi numerose avventure e peripezie di valore simbolico.
Quel che ci preme ricordare qui è il legame con i cicli agricoli e con la parte più “selvaggia” dell’uomo. La via che Dioniso indica all’uomo per avvicinarsi alla divinità è quella orgiastica ed estatica. Egli viene spesso raffigurato e citato nel corso di riti sfrenati assieme alle menadi, nel mondo romano le baccanti, mentre danzano ebbri.
« Beviamo.
Perché aspettare le lucerne?
Breve il tempo.
O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,
perché il figlio di Zeus e di Sèmele
diede agli uomini il vino
per dimenticare i dolori.
Versa due parti d’acqua e una di vino;
e colma le tazze fino all’orlo:
e una segua subito l’altra. »
(Alceo, traduzione di Salvatore Quasimodo)
In Grecia si praticava una coltivazione della vite a ceppo basso, senza sostegno o con dei semplici sostegni costituiti da paletti. Viaggiando nelle isole greche anche ai giorni nostri se ne possono vedere degli abbondanti esempi. La vinificazione era abbastanza simile alla nostra: raccolta, pigiatura degli acini, torchiatura dei raspi. La fermentazione avveniva all’interno di recipienti che venivano lasciati aperti fino alla fine del processo.
I metodi e le tecniche di coltivazione delle viti, di produzione e di consumo del vino sono riscontrabili sulle decorazione dei vasi, i quali assumevano anche forme e nomi diversi a seconda dell’utilizzo per il quale erano preposti: tra tutti il più importante era il cratere, un grande vaso a forma aperta utilizzato nel banchetto per mescere il vino con l’acqua. Toccava al simposiarca, il maestro delle cerimonie, il compito di regolare l’andamento del banchetto, stabilendo di volta in volta quanto vino bere, quando berlo e il suo livello di diluizione con l’acqua. I greci erano infatti perfettamente a conoscenza anche degli effetti negativi che l’abuso del vino comportava, tanto che alcune città emanarono addirittura delle leggi per regolarne il consumo. Un monito famoso contro l’utilizzo sfrenato di vino si trova nell’episodio di Odisseo e Polifemo, dove in modo abbastanza esplicito Omero racconta come alzare il gomito potesse avere delle conseguenze gravi. Sappiamo ad esempio, che come gli egizi, i greci non consumavano il vino puro, in quanto provocava effetti indesiderati e negativi, e quindi considerati barbari.
Al consumo del vino erano anche legati i momenti di maggiore comunanza all’interno delle poleis greche. La parola simposio letteralmente significa proprio “bere insieme”. Il simposio non aveva solamente una funzione ludica, bensì anche quella di permettere alle persone appartenenti al medesimo ceto sociale di riunirsi per discutere di temi politici e di scambiarsi le proprie opinioni. Durante il simposio diversi poeti e aedi si alternavano nel cantare e ricordare ai partecipanti la storia comune delle differenti famiglie, in modo da rafforzare il senso di appartenenza dei diversi membri della comunità. Queste bevute comuni avevano anche un significato religioso in quanto permettevano alle persone di entrare in contatto con la divinità mediante lo stato di ubriachezza, sfruttando adeguatamente le qualità liberatrici del vino. Il banchetto e il simposio si diffusero rapidamente anche sulla penisola italiana e divennero una pratica costante nella vita della comunità. Secondo alcuni filosofi e poeti, addirittura, il vino possedeva la virtù di mostrare la vera natura delle persone e di liberare il senso di verità che albergava al loro interno, da cui il proverbio in vino veritas, in greco Ἐν οἴνῳ ἀλήθεια, coniato dal poeta greco Alceo.
I vini greci erano classificati per il loro colore e si dividevano in bianchi, neri e mogano, per il loro profumo, per il quale erano utilizzati diversi tipi di fiori, come la rosa e la viola, e per il sapore, per addolcire il quale si utilizzava anche il metodo del riposo su un letto di uva appassita che rendeva il nettare particolarmente dolce. Altri vini presentavano invece un gusto più aspro e acido ed erano classificati come secchi.
Il problema principale consisteva nella conservazione dei vini stessi, data la scarsa resistenza all’aria; questi, infatti, tendevano a ossidarsi con discreta velocità. Per ovviare a questa caratteristica fu introdotto il processo di aggiunta della resina che consentiva un invecchiamento più equilibrato. Il vino era conservato in recipienti cosparsi di resina di conifere, che conferiva il caratteristico aroma. Ancora oggi i Greci bevono un vino con aggiunta di resine che si chiama Retsina, spalmandone anche i recipienti. Talvolta si aggiungevano miele o erbe aromatiche per aumentare il tempo di conservazione. Famosi e celebrati erano i vini di Lesbo, Lemno, Pramno, Chio.
Enotria
Secondo le teorie finora riconosciute la coltura della vite sarebbe arrivata in Italia attraverso la Sicilia con i colonizzatori Egeo-Miceni intorno al 2000 a.C., secondo altri la vite sarebbe stata introdotta dai Pelasgi nel 1600 a.C. e dagli Etruschi, soprattutto nella parte centrale della penisola, venuti dall’Asia minore; secondo altri ancora dai Fenici.
Gli antichi storici Greci riferiscono degli Enotri provenienti dalla Grecia, all’inizio dell’Età del Ferro, XI secolo a.C., insieme ad altri popoli dello stesso gruppo etnico attraverso il Canale d’Otranto e si rifanno allo schema del capostipite, semi-mitologico, Enotro.
Altri ritengono che la nostra penisola prese il nome di Enotria dal termine greco oinotron ovvero palo da vigna, proprio per lo straordinario sviluppo che ebbe questa coltivazione. Le tecniche di viticoltura prevedevano la coltivazione delle piante a gruppi di tre per volta legate tra di loro a formare una specie di piramide. La denominazione della regione derivata dagli usi del popolo insediatovi, ovvero la coltivazione della vite, e quella derivata dal nome del mitologico capostipite, in realtà sono due facce della stessa medaglia: come spesso avviene il mito racconta sostanzialmente di un collegamento con una popolazione di cultura greca “portatrice” di conoscenze sulla vite; questo è manifesto nel nome del fondatore come spesso accade nei miti.
Mondo Italico
Al di là delle fonti storiche e mitologiche i dati archeobotanici ci davano finora il seguente quadro.
La vite fu conosciuta e apprezzata dalle popolazioni indigene italiane, paleoliguri e della Valle Padana, in periodo precedente alla colonizzazione greca, oltre il X secolo a. C. Gli Etruschi coltivavano la V. vinifera sylvestris sin dall’VIII secolo a. C., prima che i Greci e poi i Romani diffondessero in Italia la V. vinifera sativa con le sue numerose varietà. I vini etruschi delle zone costiere della Toscana, del Lazio e della Campania divennero oggetto di esportazione verso la Gallia meridionale e la Catalogna, come dimostrano i ritrovamenti delle caratteristiche anfore etrusche a partire dal VII secolo fino all’inizio del V.
Caso a sé stante la Sardegna in cui recentemente sono stati ritrovati semi di vite di epoca Nuragica, risalenti a circa 3000 anni fa (1300 – 1100 a.C.) suscitando l’ipotesi che in Sardegna la coltivazione della vite non sia stata un fenomeno d’importazione, bensì autoctono. A suffragio di questa ipotesi l’équipe archeobotanica del Centro Conservazione Biodiversità sta raccogliendo materiali in tutto il Mediterraneo: dalla Turchia al Libano alla Giordania si cercano tracce per verificare possibili “parentele” tra le diverse specie di vitigni. Lo studio potrebbe scoprire, viceversa, la conferma alla tesi degli Egeo-Micenei o dei Pelasgi che proprio in quel periodo avrebbero importato la pianta nel Mediterraneo occidentale, passando per la Sicilia.
Nel sito nuragico di Sa Osa, nel territorio di Cabras, nell’Oristanese sono stati rinvenuti oltre 15.000 semi di vite, perfettamente conservati in fondo a un pozzo che fungeva da ‘paleo-frigorifero’ per gli alimenti, non carbonizzati. La prova del C14 li data appunto all’età del bronzo, punta massima di splendore della civiltà nuragica.
Restiamo ovviamente in attesa di ulteriori sviluppi da includere in questa sintesi storica.
Per quanto riguarda il sud Italia si fa riferimento al periodo di massiccia colonizzazione greca, che vide la nascita della Magna Grecia, tra i secoli VIII e VI a. C.: la fondazione di Cuma infatti risale a circa il 750 a. C. e quella di Elea al 540 a. C.
Tuttavia una recentissima notizia sovverte le conoscenze fin qui consolidate. Uno studio di Davide Tanasi, della University of South Florida, reso noto nel 2017, riguarda contenitori ceramici rinvenuti nel 2010 in una grotta sottostante il monte Kronios, in Sicilia. I dati biochimici sui contenuti residuali di alcune giare hanno restituito l’esistenza di puro vino d’uva risalenti a circa 5.000 anni fa, in piena Età del Rame, antecedenti quindi anche i vinaccioli sardi.
La scoperta cambia il panorama su cui le teorie precedentemente esposte si sono basate. Se confermati da ulteriori esami e ricerche i dati significherebbero la nascita di una viticoltura autoctona, o giunta di gran lunga prima di quanto ritenuto, oltre a modificare molti altri aspetti storici relativi alle popolazioni italiche e insulari in particolare.
La Magna Grecia
I vigneti della Magna Grecia si sono sviluppati in un tempo molto lungo (circa 500 anni), durante il quale si sono diffusi alcuni vitigni, come le Aminee o il Biblino, e si sono affermate le tecniche colturali di origine greca. Spetta ai Greci, prima con modalità di diffusione di tipo culturale, con gli emporion, e poi con le città-stato, il grande merito di aver trasformato il vino da semplice prodotto alimentare a merce di scambio e di aver diffuso il culto di un dio protettore della viticoltura, Dioniso, che come dice Euripide … in dono al misero / offre, non meno che al beato, il gaudio / del vino ove ogni dolore annegasi.
Questo culto greco per Dioniso fu mediato prima dagli Etruschi, presso cui si chiamò Fufluns e fu più tardi ereditato dai Romani, che trasformarono il nome in Libero e quindi in Bacco. Il culto mistico di Dioniso – Bacco acquistò, poi, ampia popolarità nell’Italia meridionale dopo la II guerra punica.
Alla irradiazione culturale dell’Antica Grecia, dunque, va attribuita la diffusione di vitigni pregiati di origine orientale, le forme di coltivazione a basso ceppo e la potatura corta del Mezzogiorno d’Italia.
Nel periodo in cui ebbero a coesistere in Italia la civiltà greca e quella etrusca, tra le due ci fu quasi una frontiera nascosta. Questa frontiera isolava due culture profondamente diverse, caratterizzate tra l’altro dalle diverse tecniche di sepoltura, inumazione i primi e incinerazione i secondi. Tra le diversità c’era anche la scelta dei vitigni e la modalità di coltivazione della vite, alle quali non era certamente estraneo un uso rituale, sebbene profondamente diverso, del vino. Significativa a questo proposito è la coincidenza tra l’area di diffusione e coltivazione della vite a sostegno vivo con l’area della massima espansione etrusca, non solo nelle regioni dell’Italia settentrionale, ma anche in Campania.
Nell’agro di Aversa, dalla prima espansione etrusca fino ai nostri giorni, la vite è maritata al pioppo, la cosiddetta coltivazione in arbusta, e dà una forte impronta al paesaggio agrario, differenziandosi dal paesaggio napoletano, caratterizzato dalla vite coltivata a basso ceppo detta coltivazione in vinea.
Che il sistema di coltivazione della vite su tutori vivi fosse un retaggio etrusco lo dimostra anche la presenza nella lingua di questo popolo misterioso di un vocabolo, atalson, che significa appunto vite maritata all’albero. Appare quindi verosimile l’estensione della modalità di coltivazione della vite all’origine genetica del vitigno prevalentemente coltivato nell’Aversano, l’Asprinio, il cui nome ha un valore semantico analogo a quello di Cruet o Crovet (crudetto, asprigno) attribuito nei dialetti locali alle lambrusche piemontesi, altre viti derivate dalla V. vinifera sylvestris endemica in tutta Italia.
Possiamo affermare che il nome Asprinio identifica un confine culturale tra le zone a viticoltura di ispirazione greca e quella paleo-ligure ed etrusca, rispettivamente prevalenti nell’Italia meridionale e nell’Italia centrale e padana.
Gli Etruschi, nell’area centrale-tirrenica dell’Italia e nell’VIII sec. a.C., preferivano bere il vino “pretto”, cioè naturale, mentre i Romani lo consumavano come i Greci: miscelato con acqua, spezie o infusi di erbe. Indicavano con il termine “mulsum” il vino mescolato a miele che era la bevanda offerta all’inizio del pranzo romano in concomitanza con la “gustatio“ quella che definiremmo la portata degli antipasti, quindi una bevanda che equivale al nostro aperitivo.
Il miglior mulsum era ottenuto dal mosto derivante dal non completo schiacciamento di uve provenienti da viti coltivate presso alberi e vendemmiate in giornate secche. A tre parti di vino si aggiungeva una parte di miele; dopo accurata agitazione la miscela veniva posta in un vaso che, chiuso, si lasciava a riposo per almeno un mese per essere filtrato e posto di nuovo a riposare. Oltre che come bevanda, il mulsum era utilizzato come “medicina”, ad esempio consumato caldo contro i dolori di stomaco, come stomachico, come corroborante.
L’equivalente della retsina greca era invece il “vinum picatum” quello mescolato alla resina di conifere, da loro chiamata pece “pix, picis”.
Columella dedica alle ricette per aromatizzare il vino con la pece “conditura vini picati” i capitoli 22, 23, 24 del libro XII del suo Res rustica; Plinio, inoltre, in Naturalis Historia XXIII, 47 elenca anche gli effetti benefici che il vino trattato con la pece ha per il corpo:
Hoc genus vini excalfacit, concoquit, purgat. Pectori, ventri utile, item vulvarum dolori, si sine febri sint, veteri rheumatismo, exulcerationi, ruptis, convulsis, vomicis, nervorum infirmitati, inflationibus, tussi, anhelationibus, luxatis in sucida lana inpositum. Ad omnia haec utilius id, quod sponte naturae suae picem resipit picatumque appellatur Helvico in pago, quo tamen nimio caput temptari convenit.
“Questo tipo di vino (scil. quello trattato con la sola pece) è calorifico, aiuta la digestione, disintossica. Fa bene al petto, al ventre e ugualmente ai dolori dell’utero (se non sono accompagnati da febbre), ai flussi di umore cronici, alle ulcerazioni, alle fratture, alle slogature, agli ascessi purulenti, alle malattie dei tendini, alla flatulenza, alla tosse, all’asma, alle lussazioni, mediante impacchi fatti con lana grezza. Per tutti questi impieghi è migliore il vino che abbia un gusto naturale di pece e che è detto peciato nel distretto degli Elvii, per quanto si ritenga concordemente che, bevuto in eccesso, dà alla testa.”
Nei primi anni della fondazione di Roma il consumo del vino era riservato alle classi più agiate e conservava il ruolo sacro già rivestito in culture antecedenti, dai Sumeri fino agli Egizi e ai Greci. Il collegamento rimane a lungo nei simboli sacerdotali che includono strumenti utilizzati nella mescita del vino, come il simpulum raffigurato su molte monete imperiali. La simbologia del vino in ambito religioso si trasmetterà con facile continuità anche al Cristianesimo come vedremo in seguito.
Con la conquista di nuovi territori i colonizzatori romani cercarono di espandere la coltivazione della vite per produrre vini da utilizzare per il loro fabbisogno, ma principalmente per incrementare e rendere più proficui scambi commerciali con i popoli assoggettati o con quelli oltre i confini, che erano avidi di vino. Dalle zone centro-meridionali la viticoltura venne sempre più introdotta e diffusa nei territori della Valle Padana. In queste aree i Romani incontrarono le coltivazioni autoctone già favorite dalle tecniche colturali importate dagli Etruschi: nei colli vicino a Verona veniva prodotto il vino “Retico” ottenuto dall’uva Rhaetica; in Piemonte un vitigno a bacca nera adatto alle regioni fredde, la Allobrogica, probabilmente corrispondente all’attuale “Nebbiolo”, un vitigno che venne in seguito introdotto dai Romani anche in Borgogna e dalla cui evoluzione sembra si sia originato l’attuale Pinot. Nella zona di Bordeaux venne diffusa la varietà denominata Butirica che, secondo Columella, produceva un vino conservabile per parecchi anni.
I Romani furono eccellenti viticoltori ed erano a conoscenza di gran parte delle tecniche impiegate nella moderna enologia.
Merito degli studiosi romani di argomenti agricoli è l’aver tramandato l’elenco delle varietà di vite coltivate e delle caratteristiche organolettiche dei vini ottenuti. Autori come Columella e Plinio contribuirono a tramandare le tecniche di coltivazione della vite sostanzialmente utilizzate fino al ‘700.
I Romani raccoglievano i grappoli d’uva ben maturi, con coltelli a forma di falce, e li portavano in cantina con ceste, scartando quelli immaturi ed alterati, che servivano per produrre il cosiddetto vino degli schiavi. Il vino per gli schiavi secondo quanto racconta Catone, veniva anche fatto aggiungendo acqua alle vinacce dopo pressate e facendo fermentare il tutto; della lora, ossia del vinello così ottenuto, agli schiavi spettava una razione di tre quarti di litro al giorno; in media 260 litri/anno. Questa bevanda era pressoché l’unica conosciuta da schiavi e contadini, se non consideriamo la posca, miscela di aceto e acqua.
La pigiatura avveniva collocando i grappoli in tinozze, in vasche in muratura o in pietra molto larghe, il cui nome era calcatorium; esse erano generalmente poco profonde, in maniera che lo strato di uva fosse relativamente spesso, e sopraelevate rispetto al pavimento.
Dopo una decantazione ed una filtrazione grossolana fatta in panieri di vimini, il mosto veniva messo a fermentare nei dolia, recipienti panciuti di terracotta, della capacità di 600-1000 litri. Il vino ottenuto, essendo torbido, veniva chiarificato utilizzando bianchi d’uovo montati a neve o latte fresco di capra, mentre i greci per rendere brillante il vino avevano fatto ricorso a pezzi di argilla o di marmo. Il vino veniva quindi travasato in altri dolia, o in anfore a doppia ansa chiamate seriae, di capienza dai 180 ai 300 litri, impermeabili e dotate di una punta che si conficcava nel pavimento.
Prima del III sec d.C., anfore di ceramica con capacità di una ventina di litri, erano anche i contenitori principali per il traffico marittimo, chiuse ermeticamente con tappi di sughero e sigillate con pece, che consentiva l’invecchiamento; su di esse veniva impressa un’etichetta, il pittacium, che recava il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e quello del console in carica. Questo avrebbe dovuto tutelare il compratore dalla sofisticazioni, che pare fossero comuni anche a quei tempi. In epoca repubblicana e imperiale gli ottimi vini di Kos venivano imitati in Italia, come racconta Catone nel De agricultura, con uve immerse in acqua marina; si otteneva un prodotto “made in Italy”, molto simile a quello greco e i furbacchioni di allora, imitando il prodotto, ne imitavano anche il contenitore.
Verso la fine del I sec. d.C., l’anfora per il trasporto del vino fu sostituita dalla botte, più comoda da caricare. Per il commercio del vino, i Romani utilizzavano Naves Vinariae, piuttosto piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capaci di circa 300 anfore.
All’apertura delle anfore o dei dolia entravano in azione i degustatori patentati haustores, figure che potremmo avvicinare agli enologi moderni, che classificavano i vini. Essi facevano parte della corporazione dei Pregustatores, specializzati nell’arte di degustare per primi e dare giudizi su cibi e bevande destinati ai grandi banchetti o ai potenti dell’epoca, che temevano di essere avvelenati.
All’epoca di Augusto i vini preferiti erano quelli dolci e molto alcolici. Questi vini venivano invecchiati a contatto con dell’aria per farli ossidare. L’età del vino presso i romani, così come presso i greci, era considerata importante. Il vino invecchiato era indice di qualità.
Nel Satyricon di Petronio, durante la famosa cena in casa del ricco liberto Trimalcione, si legge: “Un attimo dopo arrivano delle anfore di cristallo accuratamente sigillate e con delle etichette sul collo con la scritta: «Falerno Opimiano di cent’anni». Mentre eravamo impegnati a leggere, Trimalcione batte le mani urlando: “Oddio, dunque il vino vive più a lungo di un pover’uomo! Ma allora scoliamocelo tutto d’un fiato! Il vino è vita (…)”.
Con i procedimenti di vinificazione adottati all’epoca solo i buoni vini e in particolare quelli di elevata gradazione alcolica riuscivano a conservarsi inalterati per 12 mesi. Fin verso il 100 a.C. il vino fu invecchiato con metodi naturali; indi si ricorse spesso all’invecchiamento artificiale, sistemando le anfore in camere che venivano riscaldate. Il calore non solo accelerava le reazioni chimiche dell’invecchiamento, ma rendeva più stabile il vino, che non inacidiva più, è il processo della pastorizzazione. I Romani producevano anche una specie di champagne, detto Aigleucos, una specie di mosto che, per conservarlo dolce, veniva mantenuto ad una bassa temperatura immergendo le anfore nell’acqua fredda dei pozzi più profondi.
Parlando di tipologie a Roma veniva prodotta sia la qualità rossa detta vinum atrum, sia la qualità bianca vinum candidum. Il Vino, come dicevamo, era raramente limpido e veniva di solito filtrato con un passino (colum), si beveva quasi sempre allungato con acqua calda o fredda (in inverno a volte anche con neve) in modo da ridurne la gradazione alcolica di solito da 15/16 a 5/6 gradi.
In epoca romana la concentrazione dei vigneti d’elite in Campania non ha eguali nel resto della penisola. Il segreto di questa particolarità può risiedere nel fatto che i popoli che abitavano la parte settentrionale della Magna Grecia conoscevano la potatura della vite, mentre, come ricorda anche Plinio il Vecchio (Naturalis Historia, I-XXXV), tale pratica nel periodo reale era poco praticata dai Romani. Lo conferma Virgilio nel VII libro dell’Eneide,
quando, parlando del venerabile Sabino, re del periodo mitico precedente alla fondazione di Roma, lo chiama Potatore di viti (vitis Sator) e lo descrive con in mano la falce potatoria, come il più nobile degli emblemi.
I tipi considerati più pregiati erano il Massico e il Falerno, dalla Campania, il Cecubo, il Volturno, l’ Albano e il Sabino, dal Lazio, e il Setino; i più scadenti erano il Veietano, come la maggior parte dei vini dell’Etruria era considerato di qualità scadente, e quello di Marsiglia, addirittura i vini della Gallia narbonese venivano affumicati e spesso contraffatti. Il consumo del vino ebbe la sua espansione in epoca imperiale per lo più nelle zone di produzione e nelle grandi città come Roma dove per le enormi esigenze dovute all’alta densità della popolazione portarono anche ad una distribuzione gratuita di questa bevanda sotto l’imperatore Aureliano, ultimi decenni del III sec. d.C. e al conseguente afflusso di grandi quantità di vino sia italico che di importazione.
I prezzi andavano dai 30 denari al sestiario (0,54 l) per i vini pregiati (Falernum, Sorrentinum, Tiburtinum), ai 16 denari al sestiario per i vini di media qualità, agli 8 denari per i vini di basso pregio. Il consumo medio di vino in un anno è stato calcolato in 140 – 180 litri a persona.
Una piccola curiosità. Nel 1996 sono state impiantate coltivazioni nelle domus romane di Pompei, cinque in tutto, deve sono stati collocati i filari di vite immersi tra colonne e affreschi. Dopo aver individuato le sedi delle originarie radici di vite negli antichi filari, furono piantati esemplari scelti tra alcuni vitigni autoctoni dell’area vesuviana; nel tempo si è riusciti a riprodurre in tutto e per tutto le coltivazioni che fino all’eruzione del 79 d. C. erano diffusissime in tutta l’area vesuviana. Per la parte tecnica dell’operazione, la Sovrintendenza decise di affidarsi a un’azienda vitivinicola che offre tutte le garanzie di serietà e preparazione, la Mastroberardino, i cui tecnici individuarono un primo campo sperimentale in corrispondenza dell’antico vigneto, posto presso la Casa dell’oste Eusino. Da questo vigneto nel 1999 sono stati ottenuti i primi grappoli utilizzati per condurre esperimenti di microvinificazione. Nel 2009 è stato presentato il vino “Villa dei Misteri”. Mille e settecento sono le bottiglie prodotte dai vigneti immersi nelle rovine, cercando per quanto possibile di riprodurre il gusto e il colore della bevanda consacrata al dio Bacco. Il vino pompeiano, inoltre, è stato protagonista della mostra «Vinum nostrum» inaugurata a Firenze nel giugno 2009.
Ricapitolando nella società romana maschile il ruolo del vino era di primaria importanza, dalla sfera sociale e religiosa a quella medica. Il vino puro, bevanda inebriante per eccellenza, era assimilato al sangue ed era il mezzo/simbolo della relazione tra gli uomini e gli dei confinato alla sfera sacra. Alle donne invece era rigidamente proibito, attraverso un’antica legge, lo ius osculi, che consentiva all’uomo di baciare una propria congiunta, per acclarare se avesse bevuto o meno del vino. In tarda età imperiale tale divieto cessò e anche alle donne fu consentito bere vino.
Il Cristianesimo, al tramonto dell’Impero, lo assunse quale materia per il suo più alto rito, quello eucaristico, contribuendo così, indirettamente, alla fioritura della vitivinicoltura in Europa. Come abbiamo visto, il vino è stato da sempre utilizzato in funzione iniziatica durante feste e riti religiosi, consentendo all’adepto delle sette misteriche il superamento di un’esperienza ristretta e mortificante della propria individualità, che, attraverso l’ebbrezza, veniva finalmente restituita all’abbraccio del Tutto e dell’Uno. E sovente è al vino che fanno riferimento le metafore volte a significare l’esperienza mistica: “Nella cella del vino m’introdusse”, celebra il Cantico dei Cantici (2,4), parlando dell’incontro dell’anima con lo Sposo, mentre per i musulmani il vino è “Bevanda dell’amore divino” e, non a caso, il loro divieto nel consumo del vino nasce dal suo potere e significato rituale.
Della diffusione del vino nell’Italia Settentrionale e nell’Impero, del suo destino nel Medioevo e nel Cristianesimo parleremo in un altro articolo.
Bibliografia
Scoperto in Sardegna il vitigno più antico del Mediterraneo occidentale
The_origins_of_wine_from_prehistory_to_mith
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Interessantissimo articolo che illumina su molti dettagli. Grazie di cuore.
Grazie a te Pierluigi.
Grazie per un articolo che oserei dire fondamentale per gli appasionati!!
E’ una ricerca nata da curiosità personali, quindi grazie a te per condividere gli stessi interessi.
probabilmente la parte 2 del viaggio della vite dovrà essere almeno in parte riscritta, in futuro:
https://www.facebook.com/188824904526377/photos/a.190862554322612.47242.188824904526377/786969154711946
Grazie per la segnalazione e l’attenzione! Non riguarda però la parte 2, ma la parte 1, anche se in essa non era scritto molto del Mediterraneo Occidentale 🙂
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