Il manoscritto Voynich, è un codice illustrato redatto con un sistema di scrittura a tutt’oggi non ancora decifrato. Il manoscritto contiene immagini di piante fino a poco tempo fa non identificate con nessun vegetale noto e l’idioma usato nel testo non appartiene ad alcun sistema alfabetico/linguistico conosciuto. Appaiono inoltre figure umane, soprattutto femminili, intente in attività scarsamente comprensibili. È stato definito da Robert Brumbaugh come “il libro più misterioso del mondo” nella sua pubblicazione omonima del 1977.
Da più di un secolo studiosi di crittografia stanno tentando di leggerlo applicando anche tecniche computazionali avanzate, ma l’enigma non è ancora risolto, anche se alcuni passi avanti sono già stati compiuti.
Le ultime scoperte
La datazione ormai accertata: nel 2009 il dottor Greg Hodgins, assistente ricercatore e professore associato nel dipartimento di fisica dell’Arizona University ha affermato di aver individuato alcuni dei colori, coerenti con quelli utilizzati nel Rinascimento. Ma ciò che ha definitivamente aiutato la datazione è stata l’analisi al radio-carbonio, che misura la quantità del radioisotopo carbonio 14 naturalmente presente negli oggetti e che decade con un tasso prevedibile, rendendone calcolabile l’età. Secondo queste analisi il manoscritto si colloca con certezza nel XV secolo e può essere stato scritto tra il 1404 e il 1438.
Finalmente dopo approcci diretti alla scrittura, ai materiali e allo stile delle immagini, si è pensato di affrontare il “mistero” dal punto di vista botanico e sono due i risultati ottenuti da due diverse ricerche. L’American Botanical Council ha pubblicato nel 2013 un’analisi rivoluzionaria confrontando le illustrazioni del manoscritto Voynich con quelle dei manoscritti messicani post-conquista.
Il dott. Tucker, botanico, professore emerito e co-direttore del Claude E. Phillips Herbariumat Delaware State University e il signor Talbert, tecnico informatico in pensione precedentemente alle dipendenze del Dipartimento della Difesa e della Nasa degli Stati Uniti, hanno confrontato le illustrazioni botaniche del manoscritto Voynich con la distribuzione delle piante nel mondo al momento della prima apparizione registrata del manoscritto, che lo vede in possesso dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Rodolfo II (1576-1612). Le somiglianze tra una pianta illustrata nel manoscritto Voynich e la pianta del sapone raffigurata nel Codex Cruz-Badianus del Messico del 1552, considerato il primo testo medico scritto nel Nuovo Mondo, ha portato gli autori lungo un sentiero che conduce all’identificazione di 37 piante, sei animali e un minerale nel manoscritto dalle Americhe, in particolare dalla Nueva España (Nuova Spagna) del post-conquista e nelle regioni circostanti.
La dott.ssa Wendy Applequist, curatore associato del William L. Brown Center del Giardino botanico del Missouri, ha detto: “Come minimo, questo offre nuovi aiuti negli sforzi di decifrazione; in ultima analisi, se il testo relativo all’etnobotanica centroamericana può essere recuperato dal manoscritto, il suo significato storico sarà straordinario”.
L’ultimissima ricerca, pubblicata con data 1 gennaio 2014 è di Stephen Bax Professore in Linguistica Applicata all’ University of Bedfordshire. Anche Bax decide di confrontare le immagini delle piante con altre rappresentazioni di erbari provenienti da varie nazioni in un’epoca vicina a quella ormai assodata per il manoscritto. E dopo averne individuate alcune identifica i nomi di tali piante nelle righe adiacenti. I suoi risultati sono molto incoraggianti per molti aspetti: definitivamente viene sancito che il manoscritto non è “una bufala” ma un vero manoscritto che sembra parlare di quanto riportato in immagine, secondariamente, ma decisamente non meno importante, decifrando i segni che compongono i nomi delle piante riconosciute è possibile stilare una griglia di decriptazione e progressivamente svelare tutto il testo.
I nuovi enigmi
Assieme alla decodifica della scrittura, però si aprono nuovi enigmi: se il manoscritto è indiscutibilmente antecedente alla scoperta dell’America del 1492 secondo il radiocarbonio, ma riporta piante del Nuovo Mondo, significa che è stato composto da un indigeno del continente americano o che gli europei giunsero oltre oceano prima della fatidica data? Se si tratta davvero di un trattato erboristico-medico perché è stato necessario criptarlo? E se invece di un codice fosse una lingua sconosciuta?
Se non hai mai sentito parlare di questo enorme puzzle che si tenta invano di risolvere da almeno un secolo puoi leggere tutta la sua storia qui di seguito… e ti consiglio di farlo 🙂
Aspetto del Manoscritto Voynich
Puoi visionare qui il manoscritto conservato alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale
Il manoscritto, del quale non esistono copie, è attualmente conservato presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library dell’Università di Yale, negli Stati Uniti, dove reca il numero di catalogo Ms 408 ed è anche noto come MVS.
Il volume, scritto su pergamena di capretto, è di dimensioni piuttosto ridotte: 16 cm di larghezza, 22 di altezza e 4 di spessore. Consta di 102 fogli (204 pagine) scritte e illustrate a mano, senza che sia presente una sola correzione, né sovra-sottoscrittura di alcun genere. Vi sono anche cinque fogli ripiegati a metà, tre fogli ripiegati tre volte, un foglio piegato quattro volte ed un foglio con ben sei ripiegature. La rilegatura suggerisce che originariamente fossero 116 fogli (232 pagine) e che quindi 14 fogli (28 pagine) siano andati persi. In particolare mancano i fogli 12; 59-64; 92; 97-98; 109-110. Quasi tutti gli studiosi concordano che il luogo d’origine di questo manoscritto sia l’Europa (forse l’Italia, secondo altri l’Austria, la Francia, la Germania, la Boemia o l’Inghilterra). Le molte immagini disegnate sul manoscritto hanno portato a una suddivisione convenzionale di quest’opera in cinque sezioni:
- Sezione I (fogli 1-66): chiamata botanica, contiene 113 disegni di piante sconosciute.
- Sezione II (fogli 67-73): chiamata astronomica o astrologica, presenta 25 diagrammi che sembrano richiamare delle stelle. Vi si riconoscono anche alcuni segni zodiacali. Anche in questo caso risulta alquanto arduo stabilire di cosa effettivamente tratti questa sezione.
- Sezione III (fogli 75-86): chiamata biologica, nomenclatura dovuta esclusivamente alla presenza di numerose figure femminili nude, sovente immerse fino al ginocchio in strane vasche intercomunicanti contenenti un liquido scuro.
Subito dopo questa sezione vi è un foglio ripiegato sei volte, raffigurante nove medaglioni con immagini di stelle o figure vagamente simili a cellule, raggiere di petali e fasci di tubi.
- Sezione IV (fogli 87-102): detta farmacologica, per via delle immagini di ampolle e fiale dalla forma analoga a quella dei contenitori presenti nelle antiche farmacie. In questa sezione vi sono anche disegni di piccole piante e radici, presumibilmente erbe medicinali.
- Sezione V (fogli 103-116): non vi figura alcuna immagine, fatte salve delle stelline a sinistra delle righe, ragion per cui si è portati a credere che si tratti di una sorta di indice.
https://www.youtube.com/watch?v=mR1AzrLmeTo
Il ritrovamento
Il manoscritto Voynich deve il suo nome a Wilfrid Michael Voynich, mercante di libri rari di origini polacche, naturalizzato inglese, che lo acquistò dal collegio gesuita
di Villa Mondragone, nei pressi di Frascati, nel 1912. Il contatto tra Voynich ed i gesuiti fu padre Giuseppe Strickland (Joseph Strickland 1864-1915), religioso gesuita. I gesuiti avevano bisogno di fondi per restaurare la villa e vendettero a Voynich trenta volumi della biblioteca. La biblioteca comprendeva anche una raccolta di volumi del Collegio Romano trasportati al collegio di Mondragone insieme alla biblioteca generale dei Gesuiti, per salvarli dagli espropri del nuovo Regno d’Italia. Tra questi era il misterioso volume.
Voynich rinvenne, all’interno del libro, una lettera di Johannes Marcus Marci (1595-1667), rettore dell’Università di Praga, medico reale di Rodolfo II di Boemia e orientalista, con la quale egli inviava questo libro a Roma presso l’amico poligrafo Athanasius Kircher perché lo decifrasse. Voynich stesso affermò che lo scritto conteneva minuscole annotazioni in greco antico e datò il volume come originario del XIII secolo.
Nella lettera, recante l’intestazione “Praga, 19 agosto 1666”, apparentemente corretto in sovrascrittura da un originale 1665,
Marci affermava di aver ereditato il manoscritto medievale da un suo amico, che in seguito a ricerche si rivelò essere un alchimista di nome Georg Baresch, e che il suo precedente proprietario, l’imperatore Rodolfo II, lo aveva acquistato per 600 ducati, una cifra molto elevata, credendolo opera di Ruggero Bacone. Lo stesso Voynich rinviene inoltre sulla prima pagina del volume, una firma, visibile all’ultravioletto e successivamente cancellata, di Jacobi a Tepenece, al secolo Jacobus Horcicki, morto nel 1622 e principale alchimista al servizio di Rodolfo II.
La cronologia
Prima del 1612 Rodolfo II è il più antico riferimento a questo testo. Fu Imperatore del Sacro Romano Impero, e nella lettera allegata Marci riferisce che in questo periodo acquistò il manoscritto. Morì nel 1612.
1612 circa Il manoscritto passa nella mani di Jacobus Horcicky, direttore del laboratorio di alchimia e del giardino botanico dell’imperatore Rodolfo II, conosceva l’Imperatore almeno dal 1608, quando lo nobilitò col titolo di “de Tepenecz”. Una sua firma (“Jacobi a Tepenece”) è ancora parzialmente visibile agli ultravioletti sulla prima pagina del manoscritto. Muore nel 1622.
1622 – 1635 Nessuna informazione sul manoscritto
1635 – 1643 Il manoscritto ricompare nelle mani di un personaggio di cui sappiamo poco: Georgius Barschius. Un alchimista laureatosi all’Università dei Gesuiti nel 1603 o nel 1605. Egli, forse su suggerimento di Marci, scrisse ad Athanasius Kirker due volte per chiedergli di decifrare il manoscritto. La prima lettera del 1637 non fu mai ritrovata. La seconda è datata 27 aprile 1639, fu inviata a Roma tramite il gesuita Reverendo Theodorus Moretus. In questa lettera egli sembra si firmi come Georgius Baresch, di cui Barschius è la latinizzazione, e propone delle interpretazioni basate sulle illustrazioni. Nemmeno questa lettera riceve una risposta. Nel 1662 Barschius muore lasciando il libro a Johannes Marcus Marci.
1643 – 1662 Nessuna informazione sul manoscritto
1662 – 1667 In questo quinquennio il manoscritto è certamente in possesso di Johannes Marcus Marci, fisico, già medico reale di Rodolfo II, orientalista, e dal 1662 rettore dell’Università di Praga, dove insegnava. Egli aveva studiato a Roma e un suo insegnante era stato Athanasius Kirker, destinatario delle lettere di Barschius.
Nell’agosto 1666 (forse 1665) Marci scrisse una lettera all’amico Athanasius Kirker, dalla quale si evince la loro conoscenza ultra trentennale (dal 1637-38). Gli chiede, come Barschius a suo tempo, di decifrare quel manoscritto. Si può ipotizzare che fosse stato dunque Marci nel 1637 a suggerire all’amico Barschius di rivolgersi a Kirker. Come sappiamo Barschius non ottenne risposta alle sue due lettere. Ora Marci riprovava di persona, 27 anni dopo. Prima che Kirker potesse rispondere a Marci, questi morì, nel 1667, subito dopo essere stato eletto corrispondente della British Royal Society. Non si conosce il motivo per il quale Kirker per più di un anno non rispose nemmeno all’ex discepolo. Marci però invia anche il manoscritto a Kirker e non solo delle copie come fece precedentemente Barschius.
È appunto questa la lettera rinvenuta ancora acclusa al volume in cui Marcus Marci dichiara che fu il dott. Rapahel [Sobiehrd-Mnishovsky] a dirgli che il manoscritto era stato acquistato dall’Imperatore Rodolfo II, per la somma di 600 ducati, e che si vociferava fosse stato scritto dal genio francescano Ruggero Bacone. Sembra certo che morto Marcus Marci il manoscritto rimase nelle disponibilità di Athanasius Kirker.
1667- 1773 Kirker non solo non rispose a nessuna delle lettere inviategli sull’argomento, non menzionò mai il testo, né lo catalogò. Essendo morto nel frattempo Marcus Marci il manoscritto restò presumibilmente ai gesuiti presso l’istituto di Kirker, il Collegio Romano dell’Università Gesuitica, almeno fino al 1773. In quell’anno l’ordine venne soppresso da papa Clemente XIV e i gesuiti lasciarono il Collegio, disperdendosi o riparando in Russia dove l’ordine era ufficialmente riconosciuto. Non è chiaro se il manoscritto rimase comunque nel Collegio Romano, o fu portato anch’esso in Russia.
1773 – 1814Nessuna informazione sul manoscritto
1814 – 1870 Pio VII ripristina l’Ordine dei Gesuiti che riprendono ad insegnare e tornano in possesso del Collegio Romano. Se mai fosse uscito dall’Istituto il manoscritto vi fa ritorno
1870 – 1912 Il governo italiano confisca il Collegio, compresa la celebre biblioteca dei gesuiti, oggi “Biblioteca Vittorio Emanuele II”, destinandolo a Liceo Statale. I gesuiti vengono informati con sufficiente anticipo che era concesso loro conservare solamente i beni privati. I libri più importanti vengono catalogati come beni privati del generale dei gesuiti P. Beckx S.J. Il manoscritto e altri testi vengono mandati per precauzione a Villa Mondragone a Frascati.
1912 – 1931 Il gesuita padre Joseph Strickland (1864-1915) mette in contatto i gesuiti e il libraio Wilfrid Voynich. Tra i testi venfuti al libraio per recuperare liquidità e restaurare la villa, anche il manoscritto che da questo momento prende il suo nome. Nel 1930 Voynich muore, non prima di aver tentato ogni ricerca per conoscere l’origine e la storia di questo testo, con parziali successi, grazie ai quali possiamo anche ricostruire la vicenda, e non prima di aver tentato in tutti i modi di decifrarlo o farlo decifrare, senza successo.
1931 – 1961. Il manoscritto rimane in mano alla vedova di Voynich, Ethel Lilian Voynich. Quando questa morì (1960) il manoscritto viene ereditato dalla signora Nill, amica di Voynich e sua ex-segretaria. La Nill, interessata soprattutto all’aspetto economico della faccenda, lo vendette all’antiquario di New York, tale H. P. Kraus, per 24 dollari. Kraus dovette insistere per averlo, ed era convinto che una volta decriptato gli avrebbe fruttato moltissimo denaro.
1961 – 1969 L’antiquario di New York mette in vendita il manoscritto a 160 dollari, ma non riesce mai a trovare un acquirente, e alla fine decide di donarlo nel 1969 all’Università di Yale.
1969 – oggi Il manoscritto è all’Università di Yale, nella teca dei libri rari, catalogato col numero MS 408.
Ipotesi di datazione, provenienza, contenuti e autore
L’ipotesi Bacone
Una teoria ritenuta a lungo plausibile è quella secondo cui l’autore possa essere il Doctor Mirabilis (1214-1294), al secolo Ruggero Bacone, frate francescano, filosofo, scienziato, teologo e alchimista inglese.
Perché Bacone?
Probabilmente proprio perché lo aveva suggerito Raphael Mnishowsky a Marcus Marci, lo ipotizzava dunque quest’ultimo, ne era persuaso infine anche lo stesso Wilfrid Voynich.
Effettivamente Raphael Mnishowsky era la fonte originaria della storia che riconduceva a Bacone. Inoltre era anch’egli un crittografo, grande estimatore dell’alchimista polacco Sendivogius che scrisse molte opere in linguaggio alchemico e criptico, ed ebbe diversi contatti con la corte di Rodolfo II. Rapahel Mnishowsky, a suo stesso dire, avrebbe ideato attorno al 1618 un sistema di codifica che egli stesso definì indecifrabile. Tutto ciò conduce a ventilare una congettura: Raphael Mnishowsky potrebbe essere l’autore del manoscritto?
Potrebbe averlo fornito lui stesso a Barschius, per mettere alla prova il sistema di codifica di cui sembra si fosse vantato. Potrebbe poi aver lui (e non Marcus Marci) suggerito a Barschius (il quale non riusciva a decifrarlo) di rivolgersi al più geniale Athanasius Kirker, come ulteriore test di impermeabilità del detto sistema di codifica. Alcuni sostengono che perfino la firma di Jacobus de Tepenec sul manoscritto sia stata apposta proprio da Rapahel Mnishowsky, per avvalorare la sua storia su Rodolfo II e Bacone. Anche la cifra di 600 ducati sarebbe stata inventata, per suscitare l’interesse di Marcus Marci.
Di tutto ciò, è bene precisare, non esiste alcuna prova concreta.
L’analisi calligrafica per un raffronto venne svolta inizialmente soltanto su testi di Marcus Marci, Athanasius Kirker, Georgius Barschius, e Jacobus Horczicky. Nessuno di loro sembrava sufficientemente congruo con la calligrafia usata nel manoscritto. Quando più avanti si iniziò a sospettare anche di Raphael Mnishowsky ci si rese conto che non erano reperibili suoi scritti per fare un confronto calligrafico. Confronto che però avvenne non appena si riuscì a reperire un suo testo. L’analisi calligrafia non scioglie i dubbi, e sembra non comprovare una affinità sufficientemente rilevante. Tuttavia sicuramente rivela una affinità superiore alle precedenti.
L’ipotesi di Newbold
Il primo ad aver affermato di essere riuscito nell’impresa di decifrare la lingua sconosciuta del Voynich fu William Newbold, professore di filosofia medievale alla Università di Pennsylvania. Nel 1921 pubblicò un articolo in cui proponeva un elaborato ed arbitrario procedimento con cui tradurre il testo, che sarebbe stato scritto in un latino “camuffato” da Ruggero Bacone. La conclusione a cui Newbold arrivò con la sua traduzione fu che già nel tardo Medioevo sarebbero state conosciute nozioni di astrofisica e biologia molecolare. Gli assunti di Newbold furono resi espliciti in modo completo e sistematico solo dopo la sua morte, allorché nel 1928 il suo editore Roland G. Kent pubblicò il suo libro intitolato “The Cipher of Roger Bacon”. Opinione di Newbold era che Bacone avesse usato un cifrario bi-letterale, in cui cioè ogni coppia di lettere del testo latino visibile rappresentasse una sola lettera criptata. Paolo Cortesi (saggista, autore del libro “Manoscritti Segreti”) ha scritto in proposito che:
“Newbold cambiava le sillabe in cui apparivano al secondo posto le lettere C, O, N, M, U, T, A, Q in altre sillabe, secondo un alfabeto di conversione da lui elaborato. Con la traslazione, si cambiavano le lettere ottenute col passaggio precedente in altre lettere di un secondo alfabeto. La Reversione trasformava i valori alfabetici in valori fonetici (su questo passaggio Newbold fu ancora più oscuro del solito). L’ultimo procedimento consisteva nella ricomposizione, cioè nell’anagrammare le lettere per ottenere parole. Come si vede, tutto il sistema è assolutamente arbitrario, fondato su manipolazioni libere e senza alcun rigore; l’anagramma finale, poi, è la prova (se mai occorresse!) che il metodo di Newbold è solo un gioco e non una analisi scientifica. Con l’anagramma si può trovare quello che si vuole praticamente dovunque”.
Inoltre, Newbold sostenne che nelle pagine del manoscritto, e perfino all’interno delle lettere impresse su di esso, erano contenuti altri simboli e lettere e visibili solo se magnificati al microscopio, che costituivano il vero testo criptato. In realtà aveva scambiato delle grinze sulla pergamena, dovute all’usura del tempo e allo sbiadire dell’inchiostro, per caratteri speciali.
Si aggiunga a tutto ciò il fatto che i primi codici criptati conservati nella Biblioteca vaticana risalgono agli venti del 1300 e raccolgono semplicemente dei nomi in codice. I primi codici cifrati iniziano nel 1400. La tecnica crittografica occidentale assume importanza con Leon Battista Alberti e il suo De Componendis Cifris (ca. 1466). Il primo trattato di codici segreti, il Poligraphia di Giovanni Tritemio, è del 1518. Pertanto appare estremamente improbabile che Ruggero Bacone avesse potuto – con oltre cento anni di anticipo sulla crittografia – inventare un testo crittografato così acuto da non essere mai stato decifrato da nessun crittologo, neppure con i sistemi attuali.
Dopo l’analisi al radiocarbonio la teoria “Bacone” su cui Newbold poggiava la sua interpretazione decade definitivamente, ma dalle sue ricerche nasce l’ipotesi che potremmo chiamare “Dee-Kelley”
L’ipotesi Dee-Kelley
Newbold ipotizza che, dopo la morte di Bacone, l’opera sia stata acquistata da qualche monastero inglese. A causa della dissoluzione dei monasteri avvenuta dopo il 1538 su ordine di Enrico VIII, il manoscritto venne acquistato da John Dudley, duca di Northumberland (1502?-1553) e autore di molti saccheggi. Questi lo vendette poi a John Dee (1527-1608), durante il periodo in cui questo visse a Praga.
Bisogna qui approfondire la figura di John Dee.
Matematico, geografo, alchimista inglese alla corte della regina Elisabetta I, esperto di occultismo, divinazione, si considerava cristiano (evangelico, ma all’interno di un Protestantesimo anglosassone non ortodosso, fu accusato più volte di stregoneria), anche se nella sua interpretazione para-cristiana l’ermetismo ha una parte considerevole, così come le filosofie di Platone e Pitagora, fu astrologo di corte, anche astrologo giudiziario, angelologo e negromante.
Si tratta di una figura reale, con contorni leggendari, legato all’invenzione della “Mano della Gloria” o “Sigillum Emeth”, uno strumento magico con cui si dice riusciva a paralizzare all’istante qualsiasi persona l’avesse vista.
In pratica John Dee effettuava numerose esperienze paranormali, e si serviva della magia “angelica” per scoprire alcuni segreti della natura (e del potere). In una di queste esperienze gli sarebbe stato mostrato un libro magico scritto in una lingua arcana “il Libro di Enoch” (Enoch in origine è un patriarca biblico), e gli spiriti gli avrebbero dettato la traduzione che Dee riportò nel Liber Loagaeth o Liber Mysteriorum scritto in lingua sconosciuta, da lui detta “enochiana” e attualmente custodito al British Museum di Londra, è considerato non comprensibile anche se si
distinguono 21 caratteri.
I campi d’indagine di John furono davvero vari, era esperto anche in meccanica, costruì uno scarabeo volante per rappresentazioni teatrali, studiò la mistica dei numeri, volse gli studi alchemici e astrologici a fini divinatori. Con l’alchimista Edward Kelley si dice realizzarono pubblicamente la trasmutazione di un metallo in oro alla presenza dell’Imperatore Massimiliano d’Asburgo.
Dee ebbe anche una visione politica vicina ad una sorta di misticismo imperialista, e si dice affascinasse con alcune teorie Massimiliano d’Asburgo.
E’ accertato che John Dee visitò Praga nel 1584. Questa ricostruzione fu approfondita e convalidata da studi successivi, e ancora oggi molti ritengono che i veri artefici del manoscritto Voynich possano essere John Dee e Edward Kelley. Il primo avrebbe introdotto il secondo alla corte di Rodolfo II, intorno al 1580. Kelley, abilissimo mago e truffatore, avrebbe realizzato il testo per venderlo all’imperatore, notoriamente appassionato di occultismo, e ottenere in cambio denaro o favori.
Edward Kelley era entrato nella vita di John Dee nel 1581. Fingendosi esperto di magia e occultismo, riuscì a plasmare e affascinare Dee introducendolo alla medianità e allo spiritismo. Kelley convinse persino Dee a scambiare con lui le rispettive mogli, a farsi versare una pensione annua, a condurlo a Praga con l’inganno, sostenendo che se non fosse fuggito dall’Inghilterra sarebbe morto. Così il 9 Agosto dell’anno seguente (1584) la strana coppia Dee-Kelley faceva ingresso a Praga. Neppure un mese dopo, il 3 settembre, Dee si faceva ricevere da Rodolfo II. Del resto condivideva con l’Imperatore l’interesse per le dottrine spirituali, per la magia, per l’occultismo. Inoltre aveva scritto la Monas Hiergliphica ispirandosi a suo padre Massimiliano II. Ciò nonostante Rodolfo non aveva letto la Monas Hierogliphica di Dee, e – a quanto sembra – rimase sfavorevolmente impressionato da quest’ultimo, tanto da non volerlo più incontrare, e tanto da bandirlo, pochi anni dopo, dal Regno di Boemia. Nei diari dell’imperatore, come nelle memorie dei cortigiani di corte, non vi è alcun accenno all’acquisto del testo.
La tesi affascinante di una “bufala” ben orchestrata dai due nel XVI secolo si smonta oggi grazie al radiocarbonio.
I crittografi
Negli anni quaranta i crittografi Joseph Martin Feely e Leonell C. Strong applicarono al documento dei sistemi di decifratura sostitutiva, cercando di ottenere un testo con caratteri latini in chiaro: il tentativo produsse un risultato che però non aveva alcun significato. J.M. Feely pubblicò le sue deduzioni nel libro “Roger Bacon’s Cipher:The Right Key Found” in cui, ancora una volta, attribuiva a Bacone la paternità del manoscritto.
Il manoscritto fu l’unico a resistere alle analisi degli esperti di crittografia della marina statunitense, che alla fine della guerra studiarono e analizzarono alcuni vecchi codici cifrati per mettere alla prova i nuovi sistemi di decodifica. Si stava occupando di questo anche il noto crittologo professor William F. Friedman, che già nel maggio del 1944 aveva costituito a Washington il “First Voynich Manuscript Study Group”, composto da 16 esperti tra paleografi, linguisti, filologi, egittologi, matematici . Per la prima volta si tentò un approccio scientifico e analitico, servendosi di un computer per calcolare le parole, la loro frequenza e struttura. Egli optò per un approccio più metodico e oggettivo, nell’ambito del quale emerse la cospicua ripetitività del linguaggio del Voynich. Tuttavia, a prescindere dall’opinione maturatagli nel corso degli anni in merito all’artificialità di tale linguaggio, all’atto pratico la ricerca si risolse in un nulla di fatto: a niente servì infatti la trasposizione dei caratteri in segni convenzionali, che doveva fungere da punto di partenza per qualsiasi analisi successiva. Nel 1946 questo gruppo si sciolse senza aver raggiunto conclusioni apprezzabili, e le carte andarono in parte perdute.
Nel 1950 Friedman, che stava continuando ad affrontare l’impegno con l’ausilio del computer e con criteri rigorosi ed oggettivi, decide di coinvolgere nella sua ricerca l’amico John Hessell Tiltman, ufficiale dell’intelligence inglese. Friedman e Tiltman operarono indipendentemente ma parallelamente, cercando soprattutto di trasporre i caratteri in segni convenzionali. I risultati non furono soddisfacenti ma si annotarono molte peculiarità del codice utilizzato. Ad esempio la totale assenza di parole composte da una sola lettera, o da due, che viceversa esistono in tutte le lingue; oppure la insolita frequenza con cui comparivano parole che differivano tra loro di una sola lettera. Friedman si convinse che si trattasse di una forma molto primitiva e sintetica di linguaggio universale, costruito secondo criteri logici, come è stato sviluppato sotto forma di una filosofica classificazione delle idee da parte del vescovo Wilkins nel 1667, e da Dalgarno successivamente. Del resto la prima lingua artificiale di cui si abbia notizia è dovuta a Ildegarda di Bingen nell’XI secolo, la famosa “Lingua Ignota”; il manoscritto poteva rappresentare qualcosa di molto simile.
Nel 1962-1963 vi fu anche un breve “Second Voynich Manuscript Study Group” i cui esiti non furono migliori del primo.
Nel 1975 il professor Robert Brumbaugh, docente di storia della filosofia medievale all’Università di Yale, notò in diversi fogli del manoscritto una sorta di schema ricorrente: numeri incolonnati e file di lettere. Pensò che non doveva essere una coincidenza, bensì una chiave di interpretazione. Seguì questa ispirazione ma nemmeno lui ottenne risultati apprezzabili: abbandonò dichiarando che doveva trattarsi di un’opera truffaldina ai danni di Rodolfo II.
Nel 1976 il fisico William Ralph Bennett, ha applicato la casistica alle lettere e alle parole del testo, mettendone in luce non solo la ripetitività, ma anche la semplicità lessicale e la bassissima entropia: il linguaggio del Voynich, in definitiva, non solo si avvarrebbe di un vocabolario limitato, ma anche di una basilarità linguistica riscontrabile, tra le lingue moderne, solo nell’hawaiano.
Nel 1978 il filologo dilettante John Stojko credette di aver riconosciuto la lingua, e affermò che si trattasse di ucraino, con le vocali rimosse. La traduzione però pur avendo in alcuni passi un apparente senso (Il Vuoto è ciò per cui combatte l’Occhio del Piccolo Dio) non corrispondeva ai disegni.
Nel 1987 il fisico Leo Levitov attribuì il testo a degli eretici Catari, pensando di aver interpretato il testo come un misto di diverse lingue medievali centroeuropee. Il testo tuttavia non corrispondeva con la cultura catara, e la traduzione aveva poco senso.
Nel 1995 un esperto di botanica, Sergio Toresella, scrisse un articolo (Gli erbari degli alchimisti, in: L. Saginati, Arte farmaceutica e piante medicinali…) secondo il quale il manoscritto Voynich era stato scritto in uno stile che ricordava molto quello degli umanisti italiani, e quindi probabilmente databile attorno alla metà del quattrocento. Lo scopo per il quale era stato redatto poteva essere quello di impressionare la clientela di qualcuno, forse un medico, forse un mago, o un ciarlatano. Come sappiamo questa intuizione era corretta, essendo stata confermata dalla datazione carbonio14.
Nel 1998 René Zandbergen e Gabriel Landini hanno ideato lo “European Voynich Alphabet” (EVA): un sistema per trascrivere i vari grafemi (lettere) che compongono il testo del manoscritto Voynich in caratteri romani.
Con EVA, ogni segno Voynich è rappresentato da una lettera più o meno simile dell’alfabeto latino.
Recentemente è stata avanzata un’ipotesi che chiarirebbe il motivo dell’inspiegabilità del testo e della sua resistenza a qualsiasi tentativo di decifrazione: Gordon Rugg, linguista inglese, psicologo, docente alla Keele University, membro della Society of Authors, nel luglio 2004, ha individuato un metodo che potrebbe essere stato seguito dagli ipotetici autori per produrre “rumore casuale” in forma di sillabe. Questo metodo, realizzabile anche con strumenti del 1600, spiegherebbe la ripetitività delle sillabe e delle parole, l’assenza delle strutture tipiche della scrittura casuale e renderebbe credibile l’ipotesi che il testo sia un falso rinascimentale creato ad arte per truffare qualche studioso o sovrano. Già in passato lo studioso Jorge Stolfi dell’Università di Campinas (Brasile) aveva proposto l’ipotesi che il testo fosse stato composto mischiando sillabe casuali da tabelle di caratteri. Questo avrebbe spiegato le regolarità e le ripetizioni, ma non l’assenza di altre strutture di ripetizione, ad esempio le lettere doppie ravvicinate. Rugg partì dall’idea che il testo fosse stato composto con metodi combinatori noti negli anni tra il 1400 e il 1600: uno di questi metodi, che attirò la sua attenzione, fu quello della cosiddetta griglia di Cardano creata da Girolamo Cardano nel 1550.
Il metodo consiste nel sovrapporre ad una tabella di caratteri o ad un testo una seconda griglia, con solo alcune caselle ritagliate in modo da permettere di leggere la tabella inferiore. La sovrapposizione oscura le parti superflue del testo, lasciando visibile il messaggio. Rugg ha ricondotto il metodo di creazione ad una griglia di 36×40 caselle, a cui viene sovrapposta una maschera con 3 fori, che compongono i tre elementi della parola (prefisso, centrale e suffisso). Il metodo, molto semplice da usare, avrebbe permesso all’anonimo di realizzare il testo molto rapidamente partendo da una singola griglia piazzata in diverse posizioni. Questo ha rimosso il principale dubbio correlato alla teoria del falso, cioè che un testo di tali proporzioni con caratteristiche sintattiche simili sarebbe stato molto difficile da realizzare senza un metodo di questo tipo. Rugg ha ottenuto alcune “regole base” del Voynichese, riconducibili a caratteristiche della tabella usata dall’autore: ad esempio la tabella originale aveva probabilmente le sillabe sul lato destro più lunghe, cosa che si riflette nella maggiore dimensione dei prefissi rispetto alle altre sillabe. Rugg ha tentato anche di capire se ci fosse un messaggio segreto codificato nel testo, ma l’analisi lo ha portato ad escludere questa ipotesi: per via della complessità di costruzione delle frasi e delle parole, è quasi certo che la griglia sia stata usata non per codificare, ma per comporre il testo.
I non crittografi
Secondo Nicholas Pelling , il manoscritto sarebbe opera di Antonio Averlino, detto il Filarete, a scopo di spionaggio industriale ai danni della Serenissima. Il blog di Nicholas Pelling è uno dei più specifici e costantemente aggiornati sull’argomento e l’autore ha pubblicato nel 2006 il libro “Curse of the Voynich. The secret history of the world’s most mysterious manuscript” di cui potete leggere uno schematico riassunto delle tesi qui. A prescindere dal grado di plausibilità delle conclusioni di Pellng, il suo lavoro è interessante per l’accuratezza con cui tratta un insieme di elementi marginali, che possono invece rivelarsi utilissimi per comprendere vari aspetti di questo manoscritto. Egli suggerisce anche delle ipotesi di lavoro e di ricerca che, se poste in essere, potrebbero sciogliere diversi dubbi. Osserva ad esempio dettagli delle immagini, in particolare il disegno di mura circolari con castello nel folio 86v: le città tipicamente rappresentate con mura circolari, secondo le osservazioni di Pelling, sono Gerusalemme , Bagdad e Milano. Egli sostiene che possa rappresentare il castello sforzesco di Milano sul quale i merli a coda di rondine furono presenti tra il 1450 e 1480, collocando quindi la stesura del manoscritto entro queste date. Inoltre egli riconosce nel medaglione centrale dello stesso folio una raffigurazione della Basilica di San Marco a Venezia. Attraverso ulteriori letture di manoscritti contemporanei, come quelli di Leon Battista Alberti e dello stesso Filarete egli raggiunge la sua ipotesi. Per tutte le dettagliatissime analisi consiglio di visitare il suo blog.
Un ultimo lavoro interpretativo è stato svolto da Giuseppe Fallacara e Ubaldo Occhinegro nel volume “Manoscritto Voynich e Castel del Monte” (Gangemi, 2013). Il libro offre un’inedita interpretazione sulla funzione storica del Castel del Monte di Federico II, che secondo gli autori non sarebbe stato utilizzato dal Puer Apuliae come dimora dopo le battute di caccia, ma per la cura del corpo e dello spirito con l’obiettivo ultimo di raggiungere l’immortalità. È quindi nel manoscritto Voynich, l’unico manoscritto medievale che non è mai stato decodificato, che si troverebbe la chiave di questa ipotesi. Il documento, secondo i due autori, sarebbe stato scritto da Bacone o da altri alchimisti alla corte di Federico II per offrire all’imperatore la vita eterna tramite percorsi termali, bagni, strane piante e riti particolari. Tesi veramente affascinante ma che non combacia con la datazione del manoscritto.
Delle ultime scoperte abbiamo parlato in apertura e sono quelle che più ci fanno sperare nel diradarsi del buio fitto che circonda questo incredibile oggetto da circa seicento (presunti) anni.
Chiudiamo con la foto gallery e uno speciale trasmesso da History Channel nel 2011, quindi prima degli articoli sui riscontri botanici.
Aggiornamento: Un piccolo editore spagnolo, Siloe, ha ottenuto l’autorizzazione a riprodurre il misterioso manoscritto Voynich.
Siloe, una casa editrice specializzata nei facsimili di antichi manoscritti, ha ottenuto il diritto di fare 898 copie esatte con tanto di macchie, buchi e strappi nella pergamena. Il facsimile sarà venduto al prezzo di 7mila euro a copia.
Il direttore della biblioteca di Yale, dove l’originale è attualmente conservato, Raymond Clemens, ha detto che l’università ha deciso di autorizzare i facsimili a causa delle troppe richieste ricevute da persone interessate a consultare il codice.
https://www.youtube.com/watch?v=OSR5wFHf9HU
Bibliografia
- (EN) M. E. D’Imperio, The Voynich Manuscript: An Elegant Enigma, National Security Agency/Central Security Service, 1978 (ISBN 0-89412-038-7);
- (EN) Robert S. Brumbaugh, The Most Mysterious Manuscript: The Voynich ‘Roger Bacon’ Cipher Manuscript, 1978;
- (EN) John Stojko, Letters to God’s Eye, 1978 (ISBN 0-533-04181-3);
- (EN) Leo Levitov, Solution of the Voynich Manuscript: A liturgical Manual for the Endura Rite of the Cathari Heresy, the Cult of Isis, Aegean Park Press, 1987 (ISBN 0-89412-148-0);
- (ES) Marcelo Dos Santos Bollada, El manuscrito Voynich, 2005 (ISBN 84-03-09587-2);
- (ES) Mario M. Pérez-Ruiz, El manuscrito Voynich y la búsqueda de los mundos subyacentes, 2003 (ISBN 84-7556-216-7);
- (EN) Genny Kennedy, Rob Churchill, Voynich Manuscript, 2004 (ISBN 0-7528-5996-X);
- (EN) James E. Finn, Pandora’s Hope: Humanity’s Call to Adventure: A Short and To-the-Point Essential Guide to the End of the World 2004 (ISBN 1-4137-3261-5);
- (EN) Lawrence et Nancy Goldstone, The Friar and the Cipher: Roger Bacon and the Unsolved Mystery of the Most Unusual Manuscript in the World, 2005 (ISBN 0-7679-1473-2).
- (FR) Le Code Voynich, prefazione di Pierre Barthélémy, Jean-Claude Gawsewitch éditeur, 2005 (ISBN 2-35013-022-3);
- (ES) ABC del Manuscrito Voynich, Francisco Violat Bordonau, 2006, Ed. Asesores Astronomicos Cacerenos.
- (EN) Nicholas Pelling, The Curse of the Voynich, 2006 (ISBN 978-0-9553160-0-5);
- Codice Voynich, Claudio Foti, 2008 (ISBN 978-1-4092-2054-1), Lulu.com
- (EN) Il Manoscritto di Dio, Michael Cordy, 2008 (ISBN 978-88-502-2131-8);
- Paolo Cortesi, Manoscritti segreti, Roma, Newton & Compton, 2003, pp. 149-186. ISBN 88-541-0322-5.
- Aldo Gritti, “I custodi della pergamena proibita”, 2012 (ISBN 978-88-17-05599-4), Rizzoli
- Arthur O. Tucker, PhD, and Rexford H. Talbert,”A Preliminary Analysis of the Botany, Zoology, and Mineralogy of the Voynich Manuscript“
- Atti del Quinto ACL-HLT Workshop on Language Technology for Cultural Heritage, Social Sciences, and Humanities , 2011
- Le Scienze, “Datato il misterioso manoscritto Voynich”, 12 febbraio 2011
- G. Fallacara e U. Occhinegro, “Manoscritto Voynich e Castel del Monte”, Gangemi, 2013
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