Dalla rubrica sui film storici di Archeologia tardoantica e altomedievale a Siena pubblichiamo la recensione di Marco Valenti.
Guido Malatesta era un regista e sceneggiatore italiano molto attivo fra il 1960 ed il 1970. La sua filmografia vede un’adesione accentuata al genere di gran moda in quegli anni, cioè lo pseudo film storico di avventura, nato a seguito del gran successo dei kolossal storici americani (che trovavano “antichi” avi nel Cabiria al quale aveva collaborato anche D’Annunzio –1914– e nello Scipione l’Africano di Carmine Gallone –1937-) talvolta mischiando personaggi realmente attestati con altri immaginari e mettendo in scena storie fantasiose mai avvenute; più di frequente costruendo avventure totalmente di fantasia e pressoché irreali. Troviamo quindi Malatesta molto attivo in pellicole come Maciste contro i mostri (1962), Maciste contro i tagliatori di teste (1963), Maciste il vendicatore dei Mayas (1965).
Inoltre dello stesso genere troviamo un precedente Goliath contro i giganti (1961).
Il personaggio di Maciste fu inventato da Gabriele d’Annunzio nel primo decennio del 1900, sulla base degli eroi forzuti e valorosi della mitologia greca e proposto per la prima volta in Cabiria. Maciste è un eroe dalla forza sovraumana, paragonabile a Sansone, dal cuore tenero e dotato di rettitudine morale. Dagli anni sessanta in poi Maciste divenne una sorta di “alter-ego” dell’eroe mitico Ercole, come avvenne lo stesso per Ursus. Da segnalare poi L’incendio di Roma (1965) dove il pazzo e sanguinario imperatore Nerone ordina al capo dei pretoriani di sterminare i cristiani. A eseguire materialmente l’ordine viene incaricato il console Marco Valerio, popolare comandante militare reduce da tante vittorie, che però nutre serie perplessità sui pretesti serviti per la persecuzione. Le perplessità si trasformano in certezze quando, durante l’irruzione in una catacomba, vi trova la donna che ama. Sino ad arrivare ad un prurigginoso Le calde notti di Poppea (1969), girato con il nome americaneggiante di James Reed.
Agli anni 1960 e 1964 si devono due pellicole affini: La furia dei barbari e La rivolta dei barbari. Il film di cui ci occupiamo è il primo di questi, La furia dei barbari, girato in esterni nell’allora Iugoslavia e per gli interni a Roma presso gli stabilimenti Interstudio.
Tra i protagonisti Edmund Purdom (Toryok), Rossana Podestà (Leonora), Livio Lorenzon (Kovo). Altri titoli del film sono Fury of the Pagans (ed. americana), La furia de los barbaros (ed. spagnola), Toryok, la furie des Barbares (ed. francese).
Trama
La trama è semplice e “standard”. Corre l’anno 568, le scorrerie dei Longobardi sull’italico suolo sono punteggiate di sopraffazioni. L’uccisione della moglie di un capo-villaggio innesca una spirale di vendette. Kovo il capo del villaggio di Ruter violenta e uccide la donna di Toryok capo del villaggio di Nyssia; poi fugge e si unisce ai longobardi di Alboino in marcia verso l’Italia. Nella primavera del 570, Kovo ritorna a Ruter: lo accompagnano Lianora, bella fanciulla veronese, ed una schiera di longobardi. Toryok, che durante questo tempo, ha sempre pensato alla vendetta, scatena la guerra e dopo una serie di scontri sanguinosi, distrugge il villaggio di Ruter. Kovo circonda Nyssia con le sue schiere. Impressionata dalla violenza di Kovo Lianora vorrebbe lasciarlo ma egli la trattiene con la forza. Una notte Toryok penetra nelle linee nemiche e cattura Lianora. Le orde di Kovo si gettano su Nyssia, e l’attacco è respinto a fatica: la madre, il fratello e la sposa di Toryok sono tra le vittime dell’assalto nemico. Per costringere Kovo a battersi con lui a duello, Toryok minaccia di uccidere Lianora, che tiene in ostaggio: nella singolar tenzone Kovo viene ucciso.
I longobardi fuggono, torna la pace: tra Lianora e Toryok fiorisce un sincero amore.
La Critica del Tempo
La critica del tempo lo stroncò impietosamente:
“(….) Le ingenuità e le banalità, le forzature narrative e le grossolanità storiche non si contano, e poichè il film, ove si eccettui qualche battaglia ben realizzata, manca anche del dovuto piglio avventuroso, è facile intuire quale sia il livello dell’opera” (Giacinto Ciaccio, “Rivista del Cinematografo”, 4/5, maggio 1961).
Perchè il film è da vedere?
Innanzitutto costituisce un classico del cinema pseudo storico e avventuroso degli anni ’60; inoltre, per il fascino che emana una pellicola girata quando non esistevano effetti speciali ed in cui si realizzava tutto a mano con fantastici attrezzisti e carpentieri, per i colori che non esito a definire tipici di quelle pellicole e di quel periodo, per la nostalgia che possono suscitare tali film in chi come me è nato nel 1960 e ne ha preso visione nel cinema parrocchiale della domenica pomeriggio o nella proiezione delle 10 di mattina (per ragazzini e sottocosto) che a Siena si teneva al vecchio cinema Odeon (con biglietto di 100 lire).
Ma aldilà di queste ragioni della memoria e molto personali, il film è bellissimo per alcuni aspetti che mischiano le esigenze cinematografiche con la concezione che allora si aveva dei barbari, in anni nei quali l’archeologia non aveva ancora ben illustrato o dipanato le panoplie dei guerrieri, il costume ecc.
Strepitosa, in questa direzione, la scena iniziale del film con le orde longobarde che (con costumi simili ai Tartari) cavalcano nelle pianure per attaccare subito dopo Cividale, dove il tran tran della vita quotidiana viene improvvisamente lacerato dal saettare di una lancia che uccide un uomo al mercato, segnale dell’improvviso arrivo di spietati guerrieri a cavallo, dai girocollo molto pelosi, affamati di bottino e di donne. Barbari che in molte parti del film presentano poi chiome biondo platino, mantelloni blu e stivaloni di pelle gialla che svolazzano fra gli immancabili gong che risuonano nell’aria ad ogni scena clou.
Ma soprattutto colpisce la ricostruzione del villaggio cinto da palizzata con tanto di fossato, un misto fra fortino dei nordisti e abitato altomedievale difeso. Insomma, materiale sul quale riflettere e dal quale capire come si faceva cinema allora e quali erano i luoghi comuni per ricostruire un periodo come il primo alto medioevo sfondo di avventure e storie epiche in cui, con un piglio continuista che non era però noto al regista…., i romani rappresentavano la lealtà, la giustizia, la civiltà.
Marco Valenti
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