La “lussuriosissima navigazione” di Isabella Fieschi

LA “LUSSURIOSISSIMA NAVIGAZIONE” DI ISABELLA FIESCHI
di Luigi Barnaba Frigoli

Stemma dei Fieschi

Stemma dei Fieschi

Nome: Isabella. Cognome: Fieschi. Segni particolari: bellissima. Di più: avvenente, leggiadra, incantevole. Con tale trasporto estetico ed emotivo i cronisti descrissero a beneficio dei posteri la rampolla della nobile (e ricchissima) famiglia guelfa genovese convolata a nozze con Luchino Visconti, il prode (e ghibellino) sovrano che – assieme al fratello arcivescovo Giovanni – signoreggiò su Milano e buona parte della Lombardia nel terzo e quarto decennio del XIV secolo. Il matrimonio, utile a pacificare due casate spesso e volentieri rivali, venne celebrato nel 1331 e, anche in questo caso, i cronisti non lasciano dubbi: i festeggiamenti furono incredibilmente fastosi. E continuano ancora oggi, con rievocazioni storiche che si tengono ogni estate in Liguria. Non si sa per certo quanti anni avesse, allora, la sposa, che tutti chiamavano col soprannome di Fosca; ma è probabile che il padre Carlo (fratello di papa Adriano V) l’accompagnò all’altare poco più che adolescente. Il suo promesso, invece, di anni ne aveva 44.

Luchino Visconti, Sommario delle vite de' duchi di Milano, cosi Visconti, come Sforzeschi, Venezia, 1574 di Girolamo Porro

Luchino Visconti, Sommario delle vite de’ duchi di Milano, cosi Visconti, come Sforzeschi, Venezia, 1574 di Girolamo Porro

Oltre all’abissale differenza d’età, molte altre cose dividevano i due coniugi. A cominciare dal carattere. Estroversa ed esuberante lei, ombroso e burbero lui. E sempre preoccupato, tanto che i cronisti (ancora loro!) affermano che “non rideva mai” e che, anzi, una ruga perenne gli solcava la fronte. Tale cupezza andava di pari passo con la ferrea volontà di accrescere la potenza e il prestigio di Milano ed era accompagnata anche dal costante timore di perdere il trono. Una paura cronica e logorante, affatto campata per aria. Dovette, infatti, Luchino, fronteggiare sin da subito il peggiore spauracchio dei principi: una congiura. A ordirla, Francescolo Pusterla, esponente di spicco di una delle famiglie più in vista della città di Sant’Ambrogio. Il piano per eliminare il dominus venne però scoperto e tremenda fu la vendetta: i traditori furono giustiziati senza pietà nella piazza del Broletto nuovo (l’odierna piazza Mercanti). Non tutti.

Galeazzo Visconti dal Girolamo Porro, Sommario delle vite de' duchi di Milano, cosi Visconti, come Sforzeschi, Venezia, 1574

Galeazzo Visconti dal Girolamo Porro, Sommario delle vite de’ duchi di Milano, cosi Visconti, come Sforzeschi, Venezia, 1574

All’oscura trama parteciparono – pare – anche i nipoti del tenebroso Luchino: Matteo, Bernabò e Galeazzo. Il primo se la cavò con poco. Gli altri due, invece, furono condannati all’esilio. Un provvedimento che dovette alleviare parecchio i tormenti del sovrano, in particolare per quanto riguardava Galeazzo. Quest’ultimo non era mai andato a genio al signore milanese. Troppo giovane, troppo bello, troppo esuberante. Troppo simile a Isabella. E a Luchino, infatti, sin dal giorno in cui la splendida nobildonna ligure aveva messo piede a palazzo, non erano sfuggite le affinità elettive tra la consorte e l’aitante giovanotto figlio di suo fratello Stefano, e nemmeno le occhiate languide, gli ammiccamenti, i sorrisi complici. Sapere Galeazzo lontano, peregrino in Francia, Olanda e Fiandre, era per lui oltremodo rassicurante, sia per il trono che per il talamo.
Proprio mentre Luchino si liberava dei suoi pesi, Isabella dava alla luce due gemelli, i sospirati eredi che il marito attendeva da tempo. Figli legittimi e non bastardi, come quelli che il dominus aveva seminato per il contado. Vennero battezzati Luchino Novello e Giovanni e diedero al signore la certezza – altro immenso sollievo – di essersi assicurato il prosieguo della stirpe.

Ma il lieto evento (celebrato da un madrigale di Jacopo da Bologna) rallegrò infinitamente anche la Fosca, e non solo per amore materno. Compiuto il suo dovere di moglie, Isabella trovò infatti nei due nuovi nati l’occasione per evadere dalla soffocante corte milanese e per allontanarsi, anche se provvisoriamente, dal serioso e sospettoso marito, sempre e interamente concentrato sulle cose dello Stato.

La scusa fu un voto, vero o presunto, fatto al Cielo: far benedire i due bimbi nella basilica di San Marco, a Venezia, durante la Festa dell’Ascensione, affinché potessero crescere sani e forti, per prendere, un giorno, il posto del padre sul trono. Luchino, ancora raggiante per la duplice paternità che gli garantiva doppia possibilità di successione, non si oppose. Al contrario, decise di trasformare il viaggio di Isabella e dei piccoli verso il Veneto in una dimostrazione di forza, sfarzo e grandezza al cospetto del mondo. Per scortare i suoi cari, chiamò dunque a raccolta i migliori cavalieri italiani, mentre per coprire il tragitto scelse l’acqua: il fiume Po e i suoi affluenti, dove furono apparecchiate all’insegna del lusso le più maestose e robuste imbarcazioni della flotta viscontea, brulicanti di marinai, servi, ancelle, cuochi, camerieri, musici e giullari. Nel ventre delle navi, ovviamente, venne stivato ogni bendiddio. Fosca, dal canto proprio, scelse per il suo seguito il fior fiore delle dame lombarde. E quando il corteo fluviale salpò, le genti rivierasche accorsero a frotte ad ammirare, applaudire e salutare la bellissima signora di Milano diretta con gli onori di un’imperatrice verso le terre della Serenissima. Fu l’inizio della fine.

Andrea Dandolo doge di Venezia dal 1353 al 1354

Andrea Dandolo doge di Venezia dal 1353 al 1354

Quella giostra galleggiante, con i suoi eccessi e le sue sfarzose ostentazioni, divenne ben presto oggetto di dicerie e maldicenze. Una “lussuriosissima navigazione” la definì Paolo Giovio nelle sue Vite. E difatti al nome della Fieschi la fama pubblica non tardò ad accostare ben altri aggettivi oltre a quello di bellissima. Impudente, lasciva, peccatrice. Almeno due furono, se si crede alle cronache, gli amanti che si concesse la consorte del Visconti nel suo tour per le terre lombarde e venete: Ugolino Gonzaga, nobile guerriero che ottenne le sue grazie durante una (lunga) sosta nel mantovano. E, nientemeno, Andrea Dandolo, il doge, l’uomo forte della Serenissima Repubblica, meta ultima del viaggio di Isabella. Calunnie o verità, i gossip, come li chiameremmo oggi, giunsero inevitabilmente alle orecchie di Luchino. Che aveva già dimostrato in occasione della congiura dei Pusterla di non essere tipo da perdonare il tradimento. Per l’infedele la sentenza non poteva essere che una:  la fedifraga avrebbe dovuto espiare l’oltraggio con la vita. Ma Fosca non si fece trovare impreparata. Sapeva bene chi aveva sposato. Bella, lussuriosa e anche scaltra. Fu lei a far avvelenare il marito, prima che quest’ultimo potesse assaporare la vendetta, approfittando di una grave malattia che lo aveva improvvisamente colto. Era il 1349. Nessuno, naturalmente, si azzardò a chiamare le cose con il proprio nome, accusando la vedova di assassinio. Così Isabella iniziò a immaginarsi seduta sul trono del defunto consorte assieme ai figli, Luchino Novello e Giovanni, che – cuori di mamma – teneva in pugno.

Il castello di Savignone, vicino Genova

Il castello di Savignone, vicino Genova

La Fosca, però, aveva fatto i conti senza l’oste. Ovvero: l’altro Giovanni, l’arcivescovo, fratello di Luchino. Fu sua eminenza a fargliela pagare. Senza spargimenti di sangue, ma utilizzando un’arma spesso molto più letale della spada. L’arte dell’intrigo e della delazione. Per non consegnare lo Stato alla serpe che la stessa Biscia si era allevata in seno, Giovanni fece innanzitutto dichiarare i due gemelli non più legittimati alla successione, in quanto figli non di Luchino, bensì – colpo di scena – di Galeazzo, il baldo e avvenente nipote mandato anni prima in esilio dal defunto signore, e con cui, i sospetti vennero spacciati come certezza, Isabella era stata più volte sorpresa a flirtare. Non solo. L’arcivescovo richiamò a Milano proprio Galeazzo, affidando a lui e agli altri due nipoti – Matteo e Bernabò – il dominio, equamente diviso per tre. Quanto a Isabella e a Luchino Novello (il gemello Giovanni nel frattempo era perito) vennero costretti per cinque lunghi anni a una dorata prigionia nei palazzi viscontei, finché non riuscirono a fuggire, trovando riparo nel castello di Savignone, uno dei manieri della casata Fieschi, arroccato su un’impervia collina dell’entroterra ligure, ben protetto da precipizi e pareti di roccia scura. Lì Isabella, che aveva conosciuto il lusso sfrenato e goduto delle gioie della mondanità, servita, riverita, corteggiata come una principessa delle fiabe, trascorse i suoi ultimi anni portando il peso dei propri peccati, condannata alla solitudine e all’oblìo. Al punto che non è noto nemmeno l’anno della sua morte. Luchino Novello, invece, principe mancato, dedicò il resto dei suoi giorni al mestiere delle armi, combattendo sempre tra le fila dei nemici di Milano. La città che avrebbe potuto essere sua se solo San Marco, in quel di Venezia, avesse ascoltato le preghiere di sua madre. Troppo bella per essere fedele, troppo dissoluta per essere esaudita.

Bibliografia minima:

  • P. Azario “Liber gestorum in Lombardia”
  • Annales mediolanenses (in Antonio Muratori, R.I.S., vol. XVI)
  • B. Corio “Storia di Milano”
  • G. Giulini “Memorie spettanti alla storia, al governo ed alla descrizione della città e della campagna di Milano nei secoli bassi”
  • P. Giovio “Le vite dei dodici Visconti”
  • F. Cognasso “I Visconti”
  • F. Alberto Gallo “La polifonia nel Medioevo”, Edt 1991.
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