E’ stata inaugurata pochi giorni fa, il 14 settembre, una grande mostra al British Museum sul popolo degli Sciti che resterà aperta al pubblico fino al 14 gennaio 2018.
La mostra organizzata in collaborazione con l’Ermitage di San Pietroburgo racconta la storia di questo popolo per molti aspetti affascinante ma anche poco noto.
Le notizie principali su di esso ci sono giunte attraverso gli scritti di Erodoto che li incontrò nel corso dei suoi viaggi sulla costa settentrionale del Mar Nero attorno al 440 a.C.
Ma fu al tempo dello zar Pietro il Grande che quelle osservazioni di Erodoto cominciarono ad essere verificate attraverso le scoperte archeologiche. Quando i primi ritrovamenti furono portati al Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo si aprì una nuova visione delle popolazioni abitanti il sud della Siberia in tempi lontani. Gli oggetti che colpirono e stupirono furono soprattutto i meravigliosi lavori artistici e orafi che ritraevano squisite scene di battaglie tra animali mitici e realistici. Gli studiosi alla corte di Pietro ignoravano la provenienza di questi oggetti, il popolo che li produsse e la loro età. I russi consideravano la Siberia un posto barbaro, e questi oggetti sovvertirono la loro opinione a riguardo. Quando fu determinato che appartenessero alla cultura Scita, si aprì un dibattito sull’argomento della loro origine, ovvero se questi oggetti fossero prodotti da una civiltà orientale o da una popolazione slava-russa.
La domanda più ovvia per chiunque guardi questi favolosi pezzi d’oro, bracciali, orecchini e collane, fibbie da cintura, è “chi possono essere stati questi allevatori di bestiame che non hanno lasciato altra traccia di quasi un millennio di civiltà, se non tali livelli di artigianato artistico?”
Alcune ottime risposte furono date dalla scoperta di tombe sui monti Altai, conservate dal permafrost che, congelando l’intera sepoltura, ha potuto restituire agli archeologi di inizio secolo scorso legno, feltro, seta, pelle, corpi umani e altre sostanze organiche sepolte nel IV e V secolo a.C. Altri scavi sono ancora in fase di realizzazione, uno sforzo necessario per la maggiore urgenza determinata dalle temperature crescenti che fondono il permafrost.
Questa antica popolazione abitava la parte meridionale della Russia nella regione compresa tra i Carpazi e il Don: la parte orientale, tra Don e Dnepr, era formata da steppe. La regione era esposta alle invasioni ricorrenti di popoli nomadi. Si è supposto che gli Sciti fossero di origine mongola o finnica o ancora che fossero i predecessori degli Slavi.
Secondo Tamara Rice, gli Sciti appartenevano al gruppo indoeuropeo di probabile ceppo iranico, oppure ugro-altaico. Dragan ritiene che gli Sciti fossero un popolo indo-iraniano. Recenti analisi fisiche hanno unanimemente confermato che gli Sciti, anche quelli che vivevano nella zona di Pazyryk, avevano caratteristiche fisiche spiccatamente europee e una serie di studi sul DNA, a partire dagli anni 2000, ha confermato che la costellazione di popolazioni variamente chiamate Sciti fosse geneticamente più vicina ai popoli dell’Europa orientale che non a quelli dell’Asia centrale e meridionale.
Il termine Sciti, in senso ampio, comprende l’intera popolazione iranica della Russia meridionale; in senso stretto, è inteso quel popolo che ai tempi di Erodoto abitava a occidente del Don ed era considerato fino al II secolo a. C. come un’entità nazionale. L’invasione dei Sarmati portò alla sua rovina, benché il nome Sciti compaia sempre nelle fonti scritte accanto a quello dei Sarmati.
Solo i Greci chiamavano Sciti questo popolo mentre gli Sciti definivano se stessi Skoloti.
Erodoto riporta nelle sue Storie due leggende sull’origine del popolo, quella scita e quella greca. Nella prima Targitaos, il primo uomo, avrebbe avuto tre figli: Leipoxais, Arpoxais e Kolaxais. Un giorno, dal cielo discesero tre oggetti d’oro: un’ascia bipenne, un aratro d’oro con giogo e una coppa. Il primogenito, Leipoxais, tentò di afferrare i doni divini, ma non appena vi provò, gli oggetti si fecero incandescenti. Dopo di lui, anche il secondogenito Arpoxais provò a fare suoi i regali, ma anche questa volta gli oggetti divennero incandescenti e fu impossibile afferrarli. Solo l’ultimogenito, Kolaxais, riuscì ad appropriarsi dei tre manufatti d’oro; per questo motivo, i fratelli maggiori gli cedettero la loro parte di regno. I Greci collegavano invece l’origine degli Sciti ad Ercole. Il popolo degli Sciti sarebbe infatti nato dall’unione di Echidna con Eracle che, essendo giunto in Scizia, era stato costretto a giacere con il mostro affinché gli restituisse i suoi cavalli che lei gli aveva sottratto. I discendenti della loro unione furono sottoposti per volere di Ercole, a una particolare prova: dovevano essere in grado di tendere l’arco e cingersi in vita la cintura così come faceva lui. Quelli che ne fossero stati in grado, avrebbero potuto dimorare nella Scizia, gli altri no. Solo il terzogenito, Scita, fu in grado di tendere l’arco e cingere la cintura come Eracle, e così fu il primo re della Scizia.
Quando gli Sciti cessarono di svolgere il loro ruolo politico autonomo, il loro nome divenne esclusivamente un’indicazione geografica di tutte quelle tribù nomadiche che abitavano la Sarmazia. Sciti in senso stretto occuparono la Russia meridionale nel sec. VII a. C. Parte di loro occupò anche la Mesopotamia superiore e la Siria (ca. 650-620 a. C.). Un’altra schiera attraversò i Carpazi fino al corso medio del Danubio. Ma il nucleo degli Sciti rimase nella Russia meridionale. Le truppe scitiche erano formate da arcieri a cavallo; il popolo era diviso in numerose tribù, ciascuna con i propri pascoli separati. Ogni tribù era governata da un re e da capi subordinati sepolti in grandi tumuli (kurgans) insieme ai cavalli e al seguito.
Gli Sciti conservarono le loro abitudini nomadi, sfruttando il lavoro delle popolazioni indigene, segnatamente nella zona della terra nera, ricca di grano, che vendevano ai Greci delle colonie del Mar Nero, comprando in cambio ceramica e metalli lavorati greci. Le loro tombe hanno restituito numerosi ornamenti d’oro con decorazioni di animali e scene di caccia.
Sotto il loro re Idanthyrsos, fu respinta un’invasione del re persiano Dario intorno al 512 a. C.; nel 325 a. C. annientarono un corpo di spedizione condotto contro di loro da Zopirione, generale di Alessandro. Dopo il 300 a. C. vennero espulsi dai Balcani e dall’Europa centrale dai Celti e, a partire dal sec. III a. C., subirono analogo trattamento dai Sarmati a Oriente, nella loro più importante sede, la Russia meridionale. Nel sec. II a. C. Mitridate Eupatore si batté con successo contro gli Sciti che ancora reggevano un forte regno nel Chersoneso tracico, attuale Crimea.
Gli autori classici, soprattutto Erodoto, ci forniscono sulla religione degli Sciti un elenco di nomi divini e alcune nozioni mitiche e rituali. È un materiale che, seppure integrato da numerosi reperti archeologici, soprattutto funerari, non permette di definire una religione organica. Tamara Rice afferma che, presso gli Sciti, fosse diffuso il culto della Grande Dea, Tabiti, raffigurata in numerosi reperti rinvenuti nei corredi funebri talvolta con il corpo metà umano e metà di serpente, spesso circondata dai suoi animali sacri, il cane ed il corvo, con uno scettro o uno stendardo, figurava quale protettrice del capotribù e nume tutelare dei giuramenti, oppure al centro di un rituale di iniziazione. Oggi, si tende per lo più a privilegiare la funzione di uno sciamanesimo ritenuto basilare ai fini di una qualificazione della religione degli Sciti.
Le divinità scitiche erano Tabiti, Papaios, Api Goitosyros, Artimpasa, Thagimasadas, che Erodoto identifica rispettivamente con gli dei greci Estia, Zeus, Gea, Apollo, Afrodite e Posidone.
Il culto di Thagimasadas è attribuito non a tutti gli Sciti, ma soltanto ai cosiddetti Sciti Regi (o Regali). Inoltre c’è un dio, che Erodoto identifica con il greco Ares senza fornirci il nome scita, al quale venivano eretti simulacri e sacrari, a differenza degli altri dei che ne erano privi.
Sulle pratiche rituali le testimonianze forniscono tre elementi sostanziali: sacrificio umano e culto dei crani, uso di stupefacenti, divinazione di tipo cleromantico. Il sacrificio umano, destinato ad Ares, rappresentato da una sciabola, era una pratica complessa eseguita a chiusura di una spedizione bellica: s’immolavano i prigionieri nella misura dell’uno per cento. L’identificazione nemico-vittima rituale è soggiacente anche ad altre pratiche, tra cui l’uso di bere il sangue dei nemici uccisi e quello di conservarne i crani e brani di pelle. Tra gli stupefacenti usati in vari rituali si ricorda il fumo della canapa, aspirato da un fuoco comune.
L’arte degli Sciti, aspetto particolare della cosiddetta arte delle steppe, è nota soprattutto dai corredi deigrandi kurgan del territorio che essi occuparono tra i sec. VII e III a. C. tra Danubio e Don, e non è sempre facilmente distinguibile sia dall’arte dei Traci, nota da ritrovamenti in Bulgaria, Romania, Ungheria, sia dall’arte dei Cimmeri, che vivevano prima degli Sciti sulle rive del Mar Nero.
Si considerano tuttavia scitiche o scitico-siberiane anche le manifestazioni artistiche anche più tarde delle popolazioni nomadi o seminomadi di tutte le steppe eurasiatiche sino alla Cina settentrionale. È probabile che l’arte scitica si sia formata alla periferia del regno assiro tra le tribù dell’Iran. Elementi scitici sono presenti, insieme a elementi assiri, nel tesoro di Ziwīyeh nel Kurdistan iranico (sec. VII a. C.?), mentre nei complessi scitici più antichi di inizio VI secolo a. C., come i tumuli di Kelermes o di Kostromskaja nel Kuban (ricche sepolture di capi tribù con schiavi e cavalli sacrificati) o il tesoro di Melgunov nel bacino del Dnepr, sono presenti forme assire, iraniche, urartiche.
Tombe scitiche sono anche a Karmir-Blur, città urartea occupata dagli Sciti dopo il 600 a. C.<
L’arte degli Sciti è limitata essenzialmente alla decorazione di oggetti di uso pratico: le armi, le vesti, i finimenti da cavallo e gli oggetti di arredamento sono ornati da figurazioni zoomorfe singolarmente stilizzate. Eccezionali sono le oreficerie in oro e in elettro, l’aggiunta di smalti, piuttosto rara sulle coste del Mar Nero, è invece frequente nell’arte scitico-siberiana. Il repertorio animalistico fondamentale resta per gran parte costante, ma al cervo, animale totemico delle popolazioni scitiche, si aggiungono l’alce e la renna, e la pantera e il leone si confondono in qualche caso col lupo e l’orso; figure del repertorio mitologico greco (grifoni, sfingi) vengono rielaborate localmente, e si creano nuovi esseri fantastici come un rapace con corna di cervo. Le figure appaiono in un primo tempo espressivamente realistiche, mentre dal IV secolo a. C. i motivi ornamentali prevalgono su quelli figurativi, e diventano più comuni le parti isolate (testa, corna, orecchie, zampe, zoccoli, artigli) di animali o mostri non sempre riconoscibili. Notevole è nell’arte scitica l’influenza dell’arte iranica degli Achemenidi, soprattutto nel Kuban (recipienti lignei con rivestimenti aurei di Semibrat), ma ancora maggiore è quella delle città greche delle coste del Mar Nero: nei tumuli del sec. IV a. C. di Soloha, Čertomlyk si trovano anche oggetti fabbricati nelle colonie greche in stile scitico oppure oggetti di forma locale lavorati in stile greco.
Bibliografia
- M. Gibellino-Krascennicowa, Gli Sciti, studio storico-archeologico, Roma, 1942
- T. Talbot Rice, The Scythians, Londra, 1957
- A. Momigliano, Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma, 1975
- R. Beecham, Scythian Art, Londra, 1986.
- Erodoto, Storie
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