America: questo nome da dove arriva? La Mappa di Waldseemuller

Mappa di Waldseemuller 1507

Mappa di Waldseemuller 1507 Cliccare sulla mappa per una versione interattiva

Stampata in mille copie nel 1507, scomparsa per secoli, ritrovata nel 1901 da un gesuita tedesco ,si trova oggi nella  Biblioteca del congresso a Washington DC. Sembra la trama di un thriller ma è cronaca: la storia vera della mappa di Waldseemüller, la prima testimonianza a noi nota della parola “America” e una tra le prime rappresentazioni del mondo che indichino l’esistenza di una terra inesplorata e di un altro oceano fra Europa e Asia. Un’intuizione incredibile, dato che il nuovo continente sarebbe stato riconosciuto come tale solo nel 1513. Fu solo un caso? O Martin Waldseemüller e il suo collega Matthias Ringmann avevano accesso a documenti di esplorazioni precedenti, di cui oggi si è persa la memoria?

Quinta copia della mappa Waldseemueller in versione mappamondo, rinvenuta nella biblioteca dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Bavieraritrovata tra due pagine – anch’esse del XVI secolo – riguardanti la geometria; il tutto infilato in un libro del XIX secolo.

Quinta copia della mappa Waldseemueller in versione mappamondo, rinvenuta nella biblioteca dell’Università Ludwig Maximilian di Monaco di Bavieraritrovata tra due pagine – anch’esse del XVI secolo – riguardanti la geometria; il tutto infilato in un libro del XIX secolo.

Waldseemüller nacque (secondo la Catholic Encyclopedia) a Wolfenweiler vicino a Friburgo in Brisgovia, altre fonti indicano come luogo di nascita la città di Radolfzell ma negli archivi cittadini di questa città non risultano documenti relativi alla sua nascita, presumibilmente era la città di origine della madre. Studiò presso l’Università di Friburgo in Brisgovia e fu umanista e cartografo.

 

Ricostruzione del globo di Waldseemüller (Munich University Library)

Ricostruzione del globo di Waldseemüller (Munich University Library)

Nel 1507 Waldseemüller aveva pubblicato una descrizione dei viaggi di Vespucci intitolata Hylacomylus. In seguito alla lettura del carteggio tra VespucciLorenzo di Pierfrancesco de’ Medici, Waldseemüller, nella sua diffusissima opera Cosmographiae introductio etc., aveva attribuito gran parte delle esplorazioni e scoperte al Vespucci. Benché poi avesse riconosciuto l‘errore della sua interpretazione e fosse tornato ad utilizzare il termine di “terra incognita” nelle sue successive mappe, ormai il nome “America” aveva già preso piede ed era così diffuso che rimase il nome dato al nuovo continente.

Particolare della mappa

Particolare della mappa

Sulla diàtriba relativa alla primogenitura della scoperta e sul riconoscimento del continente come tale si sono sprecate dotte discussioni e fiumi di inchiostro, tra i Colombiani e i Vespucciani si accesero faide intellettuali e non potremmo riassumere in un breve articolo tutta la bibliografia a riguardo.

Ci piace però riportare un articolo di Vittorio Zucconi pubblicato nel 2007 che è al tempo stesso incalzante come un romanzo e riassuntivo della “saga”.

la storia

America. Il nome scivola sulla lingua come lo scafo di una caravella sulle acque del Caribe, canta con una gentilezza musicale che soltanto l’ italiano sa generare. Lo fa da cinque secoli esatti, dal giorno 25 aprile 1507 quando un cartografo tedesco, Martin Waldseemuller, letteralmente Martino “Il mugnaio del lago nel bosco”, immaginò quel nome e lo stampò per la prima volta su una striscia di terra intravista da Colombo e poi da Vespucci, agli estremi confini occidentali del mondo.
E se non sono stati sufficienti cinque secoli per placare le discussioni sulle origini del nome, sull’ autenticità delle lettere di Amerigho, o Amerrigo, o Alberigo Vespucci a Piero de’ Medici, per sedare le rivendicazioni di studiosi anticolonialisti, nazionalisti, terzomondisti, revisionisti o soltanto invidiosi fradici, quella “mappa mundi” oggi conservata alla Libreria del Congresso di Washington è ormai definitivamente, irreversibilmente, il certificato di battesimo.
Non v’ è certezza assoluta, tra ipotesi, tracce, reperti, su chi per primo toccò quelle terre navigando da Est. Ma se non sappiamo chi scoprì l’ America, sappiamo chi la inventò: Martino il Mugnaio del Lago nel Bosco.
La storia di come quella enorme massa continentale – che copre il trenta per cento di tutte le terre emerse, eppure era rimasta sostanzialmente ignota per quasi diecimila anni a tutti coloro che non ci fossero arrivati a piedi dagli altipiani asiatici, come gli Inuit, gli Iroquesi, gli Anasazi, i Maya, i Toltechi, gli Aztechi – sia stata battezzata con il nome di un fiorentino mandato in Spagna per l’ allestimento di navi, è un romanzo che sa di complotti e di segreti e forse di inganni.
Una storia “nel nome dell’ America” che profuma di conventi, di abbazie, di documenti falsi, di salsedine, di vento, di ambizioni umane, di muffa, e dell’ inchiostro spalmato sui blocchi di legno inciso che il “Mugnaio” usò per tirare mille copie della mappa che cambiò per sempre l’ anagrafe della Terra. Ma odora soprattutto di quell’ elemento impalpabile, immateriale e invisibile che indirizza tanto spesso il viaggio della conoscenza e quindi della storia. Il Caso.
Oggi – quando per decidere la toponomastica di un vicoletto insignificante in una qualsiasi cittadina si devono attendere anni, riunire commissioni e consigli comunali, ottenere nullaosta, sentire esperti, mercanteggiare tra fazioni e partiti – ci sembra incredibile che un’ enormità storica come battezzare un continente che occupa un terzo delle terre e occuperà poi l’ intera storia del mondo possa esser dipeso dall’ umore, dal ghiribizzo, dalla decisione casuale di un solo individuo, chiuso nell’ abbazia di San Deodato, oggi Saint-Dié-des Vosges, in Lorena. Ma fu esattamente così.
Quando Martin il geografo – o meglio il “cosmografo”, come modestamente si considerava, che pare avesse una passione per cambiare i nomi e aveva cambiato anche il proprio, da quello del villaggio natale, Radolfzell, a quello che si era attribuito, Waldseemuller – lesse i quattro resoconti inviati da Vespucci ai Medici di Firenze con il racconto dei suoi viaggi dalla Patagonia fino alle spiagge caraibiche del Nicaragua di oggi, decise di scegliere il nome dell’ autore, Amerigus.
Ovviamente e correttamente, scrivendo Martin in latino, lo declinò al femminile, trattandosi di terra: «America». Con la leggenda sotto: «Provincia invenita est per mandatum regis Castelle» (sic), la provincia scoperta per mandato del re di Castiglia.
Con la punta di un bulino sui blocchi legno usati per stamparlo tagliò così, per le future generazioni, la diatriba che già era cominciata, appena quindici anni dopo il primo viaggio di Colombo e appena un anno dopo la sua morte, con coloro che avrebbero preferito, nel segno della primogenitura, chiamarla Colombia.
Forse un castigo severo e un’ amarezza risparmiata al genovese, ostinato fino alla fine nella persuasione di non avere affatto toccato una “terra incognita”, ma il lembo più orientale delle Indie, dunque d’ Asia.
Peccato che il gossip, il passaparola del Sedicesimo secolo e i pettegolezzi di frati e cartografi avvertissero anche allora, così come farà la storiografia moderna, che quei quattro racconti erano apocrifi, opera di falsari decisi a sfruttare la popolarità internazionale di quei navigatori e delle loro sensazionali imprese, specialmente quelle di Vespucci che stava vendendo molte più copie del suo Novus Mundus di quante l’ amico e rivale Colombo avesse venduto.
Soltanto due lettere a Piero de’ Medici sono oggi riconosciute come autentiche, ma il dubbio di avere avuto troppa fretta nel voler essere il primo a fare lo scoop del battesimo di un continente nuovo e di avere preso un granchio epocale attribuendolo al toscano, dovette raggiungere anche i Vosgi e la chiesa di San Deodato.
Dopo la tiratura iniziale di mille copie della mappa allegata al trattato Cosmographiae Introductio, andate rapidamente esaurite e diffuse in tutta l’ Europa che sapesse leggere, nella seconda edizione si autosmentì e ritirò il nome. Sconfessò la propria invenzione, cancellò America, e si affidò a un burocratico e prudente «Terra Incognita» stampato sopra quella lingua di terra.
Ma era già troppo tardi. Senza comunicazione istantanea, cellulari, talk show o banda larga, quel nome aveva raggiunto e contagiato tutta l’ Europa del Rinascimento che contasse, tutti coloro, diremmo oggi, che facevano opinione.
Si era abbarbicato per sempre alle terre sfiorate da quelle caravelle che avevano definitivamente “scoperto” l’ America e spalancato le sue terre alla ingordigia di una civiltà onnivora e invadente, la nostra. Fu come se anche quel nome non fosse stato inventato ma, proprio come le terre toccate, soltanto scoperto.
Come se fosse stato sempre lì, da millenni, in attesa di essere trovato. Uno strano animale mitologico niente affatto “nuovo”, come lo chiameranno Vespucci e poi tutti gli Europei nella loro sconfinata presunzione eurocentrica, quasi non fosse mai esistito prima, un ippogrifo addormentato in quelle sierre del Nicaragua dove, lontano dalle spiagge dei primi incontri con l’ “homo caucasico” venuto dal mare, qualcuno aveva già battezzato una catena con il nome di «Amerrìk»: i monti del vento che soffia forte.
Amerrik? Secoli prima che vi arrivasse Amerigo e che il cosmografo in un abbazia della Lorena inventasse quel nome? Una coincidenza o un plagio senza pari, un altro furto tra i milioni di spoliazioni che i seguaci delle rotte di Colombo e Vespucci avrebbero compiuto? E come avrebbe potuto il nome di una popolazione di montagna nel ponte di terra centrale fra sud e nord, appunto gli Amerrìk o Amerìques secondo la successiva grafia spagnola, dal Nicaragua arrivare fino a un’ abbazia nei Vosgi, oltre un oceano che allora pareva immenso, fino alla tipografia di un cartografo ambizioso e immaginoso ma serio, quando i contatti con gli indigeni erano stati rari, superficiali e senza interpreti?
Si scopre, o si immagina di scoprire, che Vespucci stesso non si chiamava affatto Amerigo, ma era nato come Alberigo, nella sua Firenze, diventando poi Americius, addirittura Amerricius, con due “r”, alla fine della vita, solo dopo i suoi viaggi e la sua fama, quasi avesse voluto assimilare il proprio nome a quello che aveva sentito portare fino alla costa dal «vento che soffia forte» giù dalle montagne degli Amerrìk, nella terra incognita?
E rubato.
Si spalancano a questo punto portali di dubbi, di rivendicazioni, di rancori anti-imperialisti e, in Europa, anti-italiani, attizzati da pubblicisti, antiquari, romanzieri, pataccari, dolenti organizzazioni di amerindi perennemente in collera contro quei maledetti avventurieri italiani che scoprirono in realtà, più che un continente, il modo e le rotte per arrivarci, seguendo i venti del commercio, i “Trade Winds” permanenti del sud, gli stessi Alisei che oggi portano gli uragani dall’ Africa, ben più benigni per gli indigeni di quelle devastanti navicelle di legno.
Si immaginano complotti, trame di mercanti e di vanitosi, comunque di euro-prepotenti, per appropriarsi del nome, premessa culturale necessaria per appropriarsi poi delle terre e delle loro ricchezze. è nato e vive da secoli una sorta di Codice Vespucci, un thriller, una fiction costruita per smascherare la gaffe del “Mugnaio” cartografo.
«Mi hanno rubato anche il nome, il nome della mia terra», lamenta Danilo Antòn nel suo libro Gli orfani del paradiso, «perché Vespucci, gli italiani, gli euros si sono impadroniti del nome di una provincia montagnosa nella cordigliera del Chontales, oggi Nicaragua, chiamata Amerrique nel linguaggio lenca-maya della gente che la abitava molto prima che arrivasse il primo visitatore, Cristoforo Colombo».
Questa gente scendeva al mare per commerciare, circolava sulla costa delle Moustiques, dove sicuramente Colombo attraccò. E il futuro “ammiraglio”, il suo equipaggio, i messi castigliani incaricati di piantare la croce e la spada della Spagna cattolicissima e rapacissima in quelle “nuove terre” non potevano non aver ascoltato i locali, o i Carib, che in quella costa vivevano, indicare i monti alle loro spalle ripetendo il loro nome, appunto “Amerrik”, come si fa con i turisti testoni. E altrettanto dovette ascoltare Vespucci.
Per i nativi quelle erano soltanto cime, foreste sullo sfondo. Per i navigatori, quella era l’ America. «Non gli è bastato rubarci il legno, l’ oro, le donne, ci hanno rubato anche il nome, cioè la nostra dignità». Ed ecco, alimentata dal secolo celebre per i falsi, le riproduzioni, le imitazioni le scoperte sbalorditive, dall’ Ottocento, infiammarsi la polemica, accendersi il revisionismo colorato di antropologia e di cattiva coscienza.
Spuntano documenti firmati da Albericus Vesputius, prova apparente di come l’ uomo d’ affari fiorentino, trasformato in divo, nominato “piloto major” dai sovrani, autore di best seller, avesse metamorfizzato il proprio nome di battesimo per adattarlo a una toponomastica già esistente.
Inutilmente un linguista della State University of New York, Jonathan Cohen, cerca di spiegare che buona parte di queste contestazioni sgorgano dalla gelosia, ben comprensibile, di rivali e tardi colleghi – come lo spagnolo Bartolomeo de las Casas che detestava Vespucci e spese la vita per calunniarne il buon nome, descrivendolo come «un commerciante di cetrioli» che a mala pena era qualificato come «timoniere» – o da pura fantasia alla Dan Brown. Cohen si affanna a chiarire che non solo il buon nome, ma il nome del fiorentino è perfettamente difendibile, perché il certificato di battesimo indica «Amerigho», che la storia di «Alberigo» è l’ invenzione di un autore inglese deciso a screditarlo, che «Almerigo» è semplicemente la versione spagnola, come Cristobal per Cristoforo, che comunque la radice è germanica, Elmerich o Elmerik, forse ungherese, in onore di San Emerico.
Osservazione incauta che immediatamente sollecita gli ungheresi a mettere anche loro il cappello sulla «mappa mundi» di Waldseemuller, rivendicando le origini magiare della toponomastica.
Tutti vogliono il nome per sé, come ne concupiscono la terra, come se impadronirsi del nome giustificasse il ratto di un continente, senza ascoltare il lamento di Pablo Neruda: «America, non invoco il tuo nome invano».
«America», illustra il dizionario più diffuso negli Stati Uniti, il Webster, «è nome derivato da Amerigo Vespucius». Punto e basta.
Ma subito sotto lo stesso lemma, l’ augusta enciclopedia annota che «Amerrique era il nome usato dai primi esploratori». Punto e a capo.
E, un momento, ci sono altri capitoli sempre più bizzarri nel Codice Vespucci. Si avanzano gli Algonquin, la nazione di aborigeni vissuti tra la Virginia e il fiume di New York, lo Hudson, che si riferivano alla loro terra come «Em-merika». Nella lingua dei Vikinghi, di Eric il Rosso, dei popoli dalle lunghe navi arrivati certamente in Groenlandia assai prima degli italo-spagnoli nel Caribe, c’ è un «Ommerika» come anche un «Amterik», riferito a lontane e abbandonate lande a occidente. Se non bastasse, ecco aleggiare puzza di stoccafisso in un saggio recente dello storico americano Rodney Broome (Terra Incognita) grazie a un mercante gallese che dal porto di Bristol navigò verso ovest nel 1497 per cercare nuove fonti per il suo commercio di merluzzi salati. Tornò in Inghilterra annunciando, anche lui, di avere scoperto un altro «nuovo mondo», a Terranova. Il suo nome? Richard Amerike.
La terra senza nome, il continente anonimo che nessuno aveva mai battezzato nella sua interezza, diventa ironicamente il continente con troppi padrini, affogato dai pretendenti al suo battesimo, come il nipote primogenito stiracchiato da troppi nonni.
Ma se l’ attribuzione a Vespucci è accettata come la più convincente, un segno della confusione rimane nell’ equivoco quotidiano e globale commesso, quando si usa America ormai come sinonimo degli Stati Uniti d’ America, quasi che la nazione più importante oggi si fosse divorata, insieme con i misteri della toponomastica, non una parte del tutto, ma il tutto.
Aveva ragione Neruda, invitando a non invocarlo invano, perché si fa sempre troppo presto a dire America, a declamare un nome dolce da pronunciare quanto amaro da inghiottire, per quei milioni e milioni di uomini e donne nel mondo che lo digrignano con odio, lo bruciano in effigie, e sono pronti a morire uccidendo per ferire lei, l’ America.
Che cosa ci sia davvero nel nome della cosa, è meno importante della cosa che sta all’ apice dei sogni e degli incubi di generazioni. La sera del 3 settembre 1939, quando Adolf Hitler si mise in viaggio da Berlino verso la frontiera polacca per assistere alla prima sequenza della tragedia che avrebbe distrutto lui e il suo tempo e avrebbe inginocchiato il vecchio mondo davanti alla supremazia di quello nuovo, s’ imbarcò su un treno corazzato speciale riservato a lui, senza immaginare quale presagio portasse. Il nome del treno personale del Fuhrer era «Amerika». Il cartografo tedesco ne avrebbe sorriso.

Bibliografia

  • Claudio Piani, Diego Baratono, Viaggiare per Firenze passando per le Alpi, in Navigatori Toscani, n°4, 2012, Firenze.
  • Claudio Piani, Diego Baratono, I segreti delle antiche carte geografiche, simbologie mariane per il Nuovo Mondo, Albatros il Filo, 2011, Roma.
  • Claudio Piani, Diego Baratono, L’origine del sacro manto geografico, in L’UNIVERSO, n°2, 2010, Istituto Geografico Militare di Firenze, Firenze
  • Articolo dello Smithsonian Institute
Taggato , , , . Aggiungi ai preferiti : permalink.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.