Dal latino cristiano psalterium, derivante a sua volta dal greco psaltḗrion (ψαλτήριον «cetra»), la parola salterio indica il “canto con accompagnamento di cetra”.
Per estensione prendono il medesimo nome vari strumenti a corda con cui si accompagnava il canto dei salmi e anche il testo contenente i 150 salmi biblici o salmi di Davide. I testi detti salteri costituiscono una fonte di informazioni per gli studiosi dell’epoca medievale. Nelle loro decorazioni miniate infatti, descrizione pittorica del testo, vengono raffigurati gli usi del periodo di produzione del manoscritto stesso, fornendo una fonte iconografica importantissima che colma l’assenza di testi storici.
Quello archiviato alla fine del XVIII secolo alla Württembergische Landesbibliothek di Stoccarda è uno dei più famosi esempi di salterio. E’ riccamente miniato con ben 162 iniziali decorate con motivi floreali, geometrici e zoomorfi. Ogni salmo è poi illustrato con immagini, in totale 316, che descrivono il contenuto letterale del salmo, oppure ne descrivono il contesto storico o il significato cristologico, ovvero interpretano il contenuto del salmo in termini predittivi della vita di Cristo.
Non è noto il nome del committente né quello del proprietario del manoscritto, ma l’analisi paleografica di Bernhard Bischoff negli anni ’60 sembra averne accertato la composizione tra l’820 e l’830 presso l’Abbazia di St. Germain-des-Prés a Parigi, un monastero che godeva del patrocinio diretto di Carlo Magno.
La prima menzione dell’esistenza del manoscritto è molto tarda, si verifica in una lettera datata 1787 che riguarda la sua cessione a Carlo II duca di Wurtemberg e la sua presenza nella biblioteca ducale di Stoccarda viene registrata per la prima volta nel 1818.
Proveremo ad analizzarlo confrontandolo con i testi del periodo e le testimonianze archeologiche cercando di ricostruire gli aspetti della vita materiale in epoca carolingia.
La minuscola carolina
Il carattere utilizzato è la minuscola carolina, lo stile di scrittura creato durante la rinascita carolingia avvenuta sotto il regno di Carlo Magno nei secoli VIII e IX e venne a sostituire il particolarismo grafico dei secoli VII e VIII. Fu messa a punto per la prima volta dai monaci benedettini di Corbie, un’abbazia circa 150 km a nord di Parigi, i quali trasformarono la minuscola corsiva romana, allora usata dai copisti in varie versioni regionali, in una nuova scrittura caratterizzata da una forma regolare delle singole lettere e dall’eliminazione delle legature e delle abbreviazioni. Fu adottata dapprima nei grandi monasteri per la trascrizione delle sacre scritture, poi fu insegnata nelle scuole vescovili e monastiche e quindi venne utilizzata dalle pubbliche amministrazioni per la redazione degli atti ufficiali.
Le lettere capitali miniate pur non raggiungendo la raffinatezza e la complessità di altri manoscritti coevi, pensiamo al Book of Kells comunemente datato all’anno 800, presentano comunque una certa ricchezza anche con esempi zoomorfi stilizzati e una certa omogeneità di stile.
Il Salterio di Stoccarda è di grande interesse per gli storici carolingi a causa del dettaglio e della varietà degli oggetti che ritrae, appartenenti sia al regno naturale che al mondo architettonico e militare fino all’immaginario fantastico medievale con mostri, unicorni e altri esseri mitologici. Sono molto importanti inoltre le informazioni relative all’abbigliamento e alla quotidianità in tutti i suoi aspetti. Nelle immagini di seguito scene di attività agricole come aratura e semina. Più sotto attività metallurgiche: l’estrazione della bluma di ferro mediante la rottura del forno di riduzione accanto a cui si nota un mantice; eliminazione delle scorie dal ferro mediante battitura su incudine (forgiatura).
Esiste ovviamente una questione generale di ripresa da altri modelli, dell’utilizzo di forme ed elementi già codificati e del rapporto fra schemi e tendenze realistico naturalistiche. Quanto e quando le fonti iconografiche possono corrispondere a situazioni effettive?
Quando inseriscono elementi coevi in contesti figurativi di derivazione classica o aulica per celebrarli, legittimarli, enfatizzarli?
Quando descrivono le forme degli edifici, gli attrezzi in uso, le abitudini di vita, i sistemi di trasporto, le soluzioni tecniche adottate nel contesto del tempo?
L’esame di ogni singolo caso apre prospettive diversificate, che possono trovare conferme nel confronto con altre tipologie di fonti: archeologiche e letterarie. L’uso del Salterio da parte dei monaci ha favorito la diffusione di schemi iconografici, per esempio il Re Davide musico o le scene salienti di alcuni episodi, in cui rileviamo la fissazione di stilemi ripetuti in vari manoscritti del periodo e successivi. Rimane però ampio spazio nella narrazione per immagini, per inserire scene di vita quotidiana. Proprio dove non troviamo presenti immagini sacre (Cristo, apostoli, angeli, profeti) ci siamo divertiti a ricercare e confrontare qualche dato materiale o letterario per provare a comprendere la quotidianità dell’Epoca Carolingia.
Immagini sacre
Nei primi secoli del cristianesimo non si hanno rappresentazioni dirette di Gesù, ma piuttosto simboli o immagini allegoriche, come il pesce (il cui nome greco Ἰχθύς è l’acronimo delle parole per Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) o il Buon Pastore con al collo una pecorella. Successivamente, con l’espansione e ufficializzazione del Cristianesimo, iniziano ad apparire raffigurazioni del volto di Cristo: entro il IV secolo compare il Gesù barbuto con i capelli lunghi, che diventerà la sua raffigurazione canonica, ma è presente anche una raffigurazione di giovane imberbe, soprattutto nel mondo bizantino, fino a che il movimento iconoclasta non elimina ogni forma di rappresentazione, e nell’arte carolingia e romanica.
L’arte bizantina definisce uno standard dell’iconografia cristiana che permane anche in Occidente almeno fino al Rinascimento e in questo stilema la principale raffigurazione di Gesù è quella del Cristo Pantocratore, cioè “sovrano dell’universo”, che lo mostra in abiti regali e atteggiamento maestoso e severo, spesso assiso in trono o su una sfera. La raffigurazione del Cristo, degli angeli e dei profeti nel Salterio di Stoccarda, rientra fondamentalmente in questo percorso. Essi appaiono scalzi o con sottili sandali, tunica e mantello indossato come l’himation greco, la testa circondata dal nimbo.
Gli armati
Grandemente rappresentati sono i guerrieri e i cavalieri. L’importanza delle immagini di questo e altri manoscritti è dovuta al fatto che le fonti scritte coeve sull’argomento sono piuttosto esigue. Sostanzialmente si ricavano informazioni sull’armamento del IX secolo soltanto dai Capitularia, raccolte di atti amministrativi e legislativi dei re Franchi.
In particolare si parla dell’armamento del cavaliere nel Capitulare missorum del 792-793.
I capitularia missorum erano una sorte di “promemoria” per i missi dominici, che, scelti tra vescovi, abati e nobili appartenenti al Palatium, la corte, venivano inviati in coppia nelle diverse circoscrizioni per comunicare le leggi e raccogliere lamentele e richieste. Nel documento del 792-793 si fa riferimento a beneficiari e titolari di cariche in grado di possedere “cavallo, armatura, scudo, lancia, spada lunga (spatha) e spada corta (sax)”. Una successiva lettera di Carlo Magno all’abate Fulrad, datata 806, integra l’armamento del cavaliere con “arco e numerose faretre di frecce”.
Per quanto riguarda la fanteria il Capitolare di Aquisgrana dell’802 ci informa che l’equipaggiamento è ridotto a “scudo, lancia, arco con corda di ricambio e dodici frecce”.
Non si hanno ulteriori informazioni successive al regno di Carlo Magno, terminato nell’814, se si esclude l’opera di Notkero di San Gallo (840-912) il quale descrive l’armatura dei cavalieri in Gesta Caroli Magni. Tuttavia la sua descrizione non viene ritenuta storicamente accurata dagli studiosi, quanto piuttosto un’enfatizzazione della figura di Carlo Magno e del suo seguito. Egli infatti descrive equipaggiamenti costituiti da elmi, corazze, cosciali, schinieri e guanti interamente di ferro. Questa descrizione non è congruente con i contenuti dei Capitularia e non è ritenuta economicamente sostenibile per la maggior parte dei nobili carolingi. E’ abbastanza sicuro che questo assetto non fosse utilizzato ai tempi di Carlo Magno e probabilmente nemmeno ai tempi di Notkero stesso.
E ‘evidente da questo esempio che l’archeologia sarebbe di grande aiuto nel confermare o integrare le prove scritte e iconografiche. Purtroppo, i resti archeologici di epoca carolingia sono esigui. I corredi funerari, che forniscono la maggior parte del materiale nell’alto medioevo dell’Europa settentrionale, hanno cessato di essere deposti nelle tombe a ovest del Reno, all’inizio dell’VIII secolo, ad est del Reno a metà dell’VIII, e nel nord dell’impero a inizio IX. Dopo queste date oggetti di epoca carolingia sono conosciuti solo da reperti occasionali, che sono generalmente di difficile datazione per l’assenza di qualsiasi contesto, o come oggetti d’esportazione nelle regioni al di là delle frontiere imperiali. Di conseguenza, lo sviluppo dell’equipaggiamento militare può essere seguito fino agli inizi del secolo VIII, in alcuni casi all’inizio del IX secolo, ma raramente al di là di tale data.
Restano le immagini di alcuni manoscritti miniati, tra cui appunto quello di Stoccarda, sulle cui illustrazioni molti studiosi si sono interrogati riguardo all’attinenza con il reale equipaggiamento e abbigliamento coevo e l’influenza proveniente invece da altri esempi artistici di area bizantina, raggiungendo spesso conclusioni contrastanti tra loro.
L’elmo
Nella letteratura del IX secolo viene occasionalmente citato l’ helmus o galea ma non ne viene descritta la forma e raramente il materiale. Secondo Noktero era di ferro, come tutto il corredo militare, ma abbiamo visto che forse non è una fonte così affidabile. Ci aiuta però la citazione in un altro scritto ufficiale la Lex Ribuaria in cui viene fissato il valore di un elmo in sei solidi, una cifra piuttosto alta, il che ci indica un oggetto in metallo piuttosto che in cuoio. Un altro riferimento nei capitolari, in cui si dice che solo i comandanti erano tenuti a possedere l’elmo, ci fa ritenere che dovessero essere in un materiale più pregiato del cuoio.
Quanto alla forma gli studiosi hanno dibattuto a lungo quale fosse il vero elmo di epoca carolingia di cui purtroppo non è stato ritrovato alcun esempio materiale. Il confronto tra manoscritti miniati come il Salterio di Utrecht, la Bibbia di San Paolo fuori le mura e il Salterio aureo ha indotto gli studiosi a definire l’elmo caratteristico del periodo come “una calotta rastremata verso un paracollo sporgente, con un bordo evidente che circonda l’intero elmo. Questo bordo sembra digradare fino a un punto frontale, dove un bottone segna l’intersezione con una fascia decrescente dall’apice.” Questa fascia può far parte di una cresta che attraversa tutta la calotta, che alcune fonti raffigurano anche recanti un pennacchio.
Se così fosse dovremmo dire che la rappresentazione nel Salterio di Stoccarda non è esattamente coincidente: l’estensione posteriore come protezione del collo non è così evidente e la fascia centrale appare piuttosto come laterale, il che farebbe immaginare altre fasce corrispondenti e simmetriche come in un elmo del tipo Spangenhelm adottato nei secoli precedenti da vari eserciti.
Il che non è da escludere.
Secondo Simon Coupland: “Un tipo di elmo conico probabilmente indossato dai Carolingi è lo Spangenhelm. Il nome deriva dalle strisce di metallo unite al vertice a formare una struttura poi completata con lastre di metallo o corno. E’ attestato in Occidente dal terzo al settimo secolo, e anche se non ci sono reperti più tardi, merovingi o carolingi, uno Spangenhelm è ritratto nel Salterio di Corbie, circa 800, ed è sorprendentemente simile a quelli che si trovano nelle sepolture del VI secolo. Anche se è possibile che l’artista di Corbie abbia copiato un’illustrazione precedente di Spangenhelm, l’assenza di altri modelli simili, unitamente al fatto che la lancia nella miniatura sembra essere stata copiata dalla vita reale, rende più probabile che lo Spangenhelm fosse ancora indossato nel IX secolo.” Qui viene usata, come prova a favore della corrispondenza delle illustrazioni con la realtà coeva, la presenza di una lancia alata, su cui torneremo.
Solo una tipologia di elmo?
E’ forse ragionevole ritenere che le tipologie di elmi non fossero uniformi.
Il dubbio ci sorge in riferimento a un altro documento: il testamento di Eberardo del Friuli (820 – 866) in cui sono registrati meticolosamente tutti i lasciti inclusi gioielli e armi. In questo documento si cita un helmum cum hasbergha da cui gli studiosi deducono che si trattasse di un elmo con una qualche protezione del collo aggiuntiva, di cuoio o di maglia di ferro come nello splendido esempio dell’elmo anglo-sassone di VIII secolo rinvenuto a York o come il famoso Spangenhelm di Krefeld-Gellep di VI secolo, che aveva anch’esso una protezione in maglia posteriore.
La specificazione nel testamento ci dimostra che non era consueto che l’elmo possedesse tale protezione aggiuntiva. Tra tutti gli armamenti accuratamente nominati nel testamento questo particolare oggetto viene identificato con la sua peculiare caratteristica. Probabilmente un tipo di elmo non comune e diffuso come gli altri, di sicuro unico tra i possedimenti, pur numerosi, di Eberardo. In effetti anche nel Salterio di Stoccarda compare un elmo che apparentemente ha una guardia in maglia posteriore, mentre in tutti gli altri casi essa non è presente.
Sono presenti inoltre, nel manoscritto di Stoccarda, ulteriori fogge tra cui quella a destra nell’illustrazione qui sopra e un’altra che somiglia stranamente a una sorta di berretto frigio, da interpretare, forse, come una stilizzazione della “cresta”. Non è un caso isolato: anche nelle illustrazioni di altri testi si può osservare la presenza di elmi di diverse fogge, anche nella medesima illustrazione e in diverse epoche.
L’armatura
I capitolari, quelli di Carlo Magno in particolare, fanno ripetuti riferimenti all’armatura e non vi è da stupirsi essendo una componente molto importante per la difesa del guerriero. Ogni vassallo che disponesse di almeno dodici mansi doveva possederne una e indossarla in battaglia, pena la privazione dell’armatura e dei benefici.
I termini più comuni utilizzati per indicare l’armatura nei manoscritti coevi sono brunia e lorica, anche se talvolta si trova il termine thorax.
Sono questi tutti termini di diversa origine: la thorax era la protezione del busto presso i greci, la lorica è la corazza romana, mentre brunia è un termine germanico (franco broigne, brunie, bronie; anglosassone byrnie; germanico brüne – brün ‘splendente’), che sembrano però utilizzati in modo indifferente e alternativo, e non compare, dal contesto, un significato specifico per ciascun termine. Ma come fossero fatte e se avessero protezioni aggiuntive per i fianchi o gli arti inferiori è dibattuto tra gli esperti.
Esiste infatti una prima divisione tra chi sostiene che la brunia carolingia fosse in maglia di ferro e altri che sostengono fosse a scaglie, ovvero piccole lamelle metalliche sovrapposte, cucite a un corpetto di cuoio imbottito.
La struttura ad anelli viene soprattutto citata in fonti letterarie, in particolare da Hrabanus Maurus, abate del monastero di Fulda e poi vescovo di Magonza, nel De universo e da Gregorio di Tours nell’Historiae Francorum. Tuttavia le rappresentazioni di questa tipologia sono estremamente rare.
Di fatto l’iconografia ritrae in proporzioni eque altre due tipologie: quella a scaglie e quella che si rifà ai modelli classici romani, la corazza con gli pterugi, strisce di cuoio quasi sempre rinforzate in metallo per la difesa dei fianchi e delle cosce.
Gli studiosi che si sono occupati di armamento carolingio confermano che la versione a squame dovesse esistere (vedi Ganshof in“Charlemagne Army” e Kantorowicz in“Gods in Uniform”) ma allo stesso tempo le armature di tipo romano-bizantino, così simili a quelle indossate dai bizantini coevi, avrebbero potuto costituire sia un riferimento classico delle composizioni artistiche dei miniaturisti, forse per sottolineare la continuità del Sacro Romano Impero con l’antico impero, sia una reale continuità con le armi difensive della tarda antichità.
Molti altri elementi di armatura vengono menzionati nei testi del IX secolo. Nel testamento di Eberardo del Friuli, già menzionato, e nella Lex Ribuaria compaiono anche delle protezioni per le gambe sotto il nome di bagnbergas (Bagn: “gambe”; Bergas: “guardie”), mentre Notkero impiega il classico termine latino ocreae, ovvero schinieri. In questo caso possiamo dare credito all’affermazione di Notkero che gli schinieri fossero in ferro poiché coincide con il loro prezzo relativamente elevato nel testo legislativo, 6 solidi, presumibilmente per una coppia, e con la loro inclusione tra i lasciti di Eberardo.
Non sono presenti tuttavia in nessun capitolare tra l’equipaggiamento previsto per le truppe, erano quindi, quasi certamente, oggetti di lusso appartenenti a pochi. Nel Salterio di Stoccarda sono sporadicamente raffigurati, anch’essi ricoperti di scaglie di metallo.
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Concludendo l’argomento congiunto di elmo e armatura osserviamo che esistono fondamentalmente due tipi di rappresentazione dell’epoca: quella “classica” di modello romano-bizantino, dove elmo e corazza riprendono un canone, sia esso puramente simbolico, continuità imperiale, o realistico, continuità nell’uso materiale. L’altra rappresentazione comprende una maggior varietà di fogge sia nell’elmo che nell’armatura, dove compaiono, all’interno della stessa opera, diverse varianti, testimoniate per altro anche da documentazione letteraria. In assenza di prove archeologiche l’idea che ci siamo fatti è che molto probabilmente elmo e armatura in epoca carolingia, come in altre epoche, fossero disponibili in diverse forme, in base alle esigenze del committente, non dimentichiamo che erano entrambi oggetti costosi per pochi, e alle competenze del fabbro. Di seguito alcuni esempi di elmi e loriche classiche in diverse raffigurazioni, dal II a.C. all’XI secolo.
Lo scudo
Il pezzo più economico dell’equipaggiamento di difesa, a disposizione di qualsiasi soldato carolingio, era lo scudo. Se la Lex Ribuaria, fissava il prezzo di un elmo a sei solidi, lancia e scudo assieme costavano solo due solidi. Ovviamente attorno a questo dato ci saranno state oscillazioni in funzione di molti elementi, ma certamente la maggior parte delle truppe franche poteva permettersi di possedere uno scudo, come attestano i Capitularia e come confermano le illustrazioni dei documenti miniati.
Il Capitulare de villis ci informa che la fornitura di scudi era considerata una questione di massima importanza. Carlo Magno ordinò che in ogni distretto ci fosse un costruttore di scudi e alcuni monasteri erano tenuti a fornire annualmente scudi, cavalli e lance al tesoro, come nel caso di San Gallo e Corbie. Dal momento che gli scudi erano destinati a una breve durata e una forte usura, venditori di scudi seguivano l’esercito nelle campagne militari.
Purtroppo le fonti scritte non danno indicazioni sulla dimensione, la forma o la costruzione degli scudi franchi, ma le miniature dell’epoca ritraggono un solo tipo di scudo, utilizzato sia da fanteria che da cavalleria: rotondo e concavo, di circa 80 centimetri di diametro, per proteggere il corpo dal collo alle cosce. Sebbene tali forme e dimensioni siano presenti in raffigurazioni bizantine è ragionevole credere che non si tratti di una copia da altri modelli, ma del reale aspetto degli scudi carolingi. Per due motivi principali: i caratteristici umboni a forma di “cipolla” che compaiono tra le prove archeologiche non prima dell’VIII secolo e le altrettanto peculiari linee radiali sconosciute negli scudi romani e bizantini e caratteristiche piuttosto della tradizione germanica come è facilmente verificabile sulla Pietra tombale di Hornhausen, VII secolo, o su alcune pietre scolpite del Gotland.
Gli scarsi resti di scudi dell’VIII secolo e il basso prezzo riportato nella Lex Ribuaria ci confemano che gli scudi carolingi fossero di legno. Ancora una volta la descrizione di Notkero, “in clipeo nihil apparuit nisi Ferrum”, era quasi certamente esagerazione o un’invenzione. Tuttavia, sembra che gli archi radiali raffigurati in molti manoscritti rappresentino strisce di metallo, rivettate agli scudi per donare maggiore resistenza e protezione alla struttura lignea, così come il bordo distinto anch’esso rivettato.
Lo scudo possiede una maniglia che attraversa il lato interno così come una cinghia di trasporto per essere portato a tracolla durante la marcia sia piedi che a cavallo.
Lo scudo di legno, e quindi leggero, di ridotte dimensioni e dotato di umbone metallico appuntito è sicuramente utilizzato, come già presso altri popoli germanici, come arma di offesa oltre che di difesa.
La spada
Nei capitolari precedentemente citati abbiamo visto comparire due tipi di arma da taglio: la spatha, spada lunga, e il sax, o spada corta. Sono questi due elementi che si ritrovano, entrambi, comunemente nelle sepolture fino al VII secolo. Nel corso dell’VIII secolo il sax si dirada nei ritrovamenti e nel IX secolo non ne viene fatta menzione nelle fonti scritte, né sembra presente in nessuna raffigurazione miniata. Sembra quindi che le disposizioni capitolari facciano riferimento a un’antica tradizione più che a un reale utilizzo.
Il sax, originato probabilmente da un utensile da lavoro, è caratteristica costante dell’armamento germanico nei secoli precedenti, possiede una lama a un solo taglio, ha lunghezza complessiva tra i 65 e gli 80 cm. Viene indossato sorretto da una apposita cintura che lo tiene in posizione orizzontale.
La spatha viceversa è bene rappresentata nelle fonti iconografiche e testimoniata nei resoconti dell’epoca. Inoltre, sebbene fosse decaduto l’uso dei corredi funerari, molte spade dell’epoca sono state rinvenute sia all’interno che oltre i confini del regno carolingio. Lunghe tra i 90 e i 100 cm, di cui la lama a doppio taglio occupava 75 – 80 cm, subiscono proprio sotto il regno di Carlo Magno, un’evoluzione metallurgica e strutturale. La lama, precedentemente a bordi paralleli e rastremata rapidamente in punta, assume una forma i cui bordi si rastremano più gradatamente, spostando il baricentro verso l’impugnatura e rendendola più maneggevole.
E’ forse questa nuova maneggevolezza della spada lunga a far cadere in disuso il sax, fino ad allora utilizzato in combattimenti in una scherma rapida e agile. La spada diviene l’arma primaria soprattutto per i cavalieri.
Il suo costo infatti passa dai 7 solidi, se acquistata assieme al relativo fodero, ai 5 solidi per la sola arma nei 30 anni che separano il regno di Carlo Magno da quello di Carlo il Calvo. E’ certamente un oggetto pregiato, obbligatorio esclusivamente per chi poteva permettersi un cavallo.
Si sviluppa inoltre proprio a partire dall’800 una tecnica metallurgica che ottiene lame molto più resistenti e affilate.
Appartiene a questo periodo la tecnica costruttiva della celeberrima spada +ULFBERHT di cui abbiamo ampiamente parlato in precedenza. Ma per quanto detto sopra, non solo l’eccellente qualità metallurgica della Ulfberht veniva apprezzata; la struttura stessa della spada carolingia la rendeva un’arma particolarmente apprezzata anche oltre i confini del regno.
Le spade alto-medievali sono classificate e datate secondo la forma dei pomelli e delle guardie. Le forme dei pomoli più comuni nel tardo secolo VIII e IX erano o un semplice triangolo o una serie di tre o cinque lobi arrotondati.
E’ significativo che questa forma compaia nell’VIII secolo e che tutti i documenti miniati del periodo riportino esattamente questi modelli, il che depone a favore della corrispondenza di queste fonti iconografiche alla realtà contemporanea.
Quando la spada non è sguainata viene raffigurata, nel Salterio di Stoccarda, riposta in foderi che certamente erano in legno, rivestiti e decorati in cuoio o tessuto come nei dettagli dei folii 57r e 58v che riportiamo come esempi qui sotto.
La lancia
La lancia, come abbiamo visto, era l’arma più economica elencata nella Lex Ribuaria, costava solo due solidi insieme allo scudo, anche se già nell’850 il prezzo era salito a cinque solidi. Sempre dai Capitularia già citati apprendiamo che le lance erano in uso sia alla fanteria che alla cavalleria, e che uno scudo e lancia erano l’equipaggiamento standard sui carri da guerra reali. L’iconografia mostra la lancia come l’arma predominante, molto più comune di quanto siano l’arco o la spada.
Le lance raffigurate in molte di queste illustrazioni sono alate, una caratteristica che compare già alcuni secoli prima dell’era carolingia. Sono presenti infatti anche in alcuni ritrovamenti longobardi in Italia, succedendo alle forme a “foglia di salice” e a “foglia d’alloro”, presenti già prima dell’ingresso del popolo longobardo in Italia. Ma anche in ritrovamenti di V secolo, come la meravigliosa lancia da parata dalla necropoli merovingia di Cutry. L’archeologia in questo caso conferma l’iconografia del Salterio e i testi, le lance infatti sono tra le armi più comuni nelle tombe dell’VIII secolo, e non solo. Anche in questo caso le miniature riflettono condizioni contemporanee, anche se a onor del vero si tratta di un tipo di arma utilizzata per un ampio periodo di tempo.
Per equipaggiare l’esercito carolingio dovevano essere necessarie molte lance il che giustifica la richiesta ad alcuni monasteri di fornire annualmente proprio lance e scudi. I monasteri li ottenevano a loro volta come pagamento dagli artigiani che vivevano nei loro possedimenti: per esempio, il fabbro Ermenulf pagava all’abbazia di Saint-Germain-des-Pres un canone annuo di sei lance per la sua metà mansus.
I testi contemporanei suggeriscono che fossero armi da spinta, usate da lancio raramente e solo durante gli assedi. Anche questo viene confermato dall’archeologia, dal momento che in genere le punte di lancia ritrovate nelle tombe di VIII secolo sono particolarmente lunghe e pesanti, inadatte quindi ad essere scagliate.
L’arco
Abbiamo già notato come nel Capitolare di Aquisgrana fosse fatto esplicito divieto all’esercito di utilizzare bastoni e di sostituire questi, piuttosto, con archi. Nello stesso documento viene indicato l’arco come arma standard per la fanteria, mentre dalla lettera di Carlo Magno all’abate Fulrad si desume che lo fosse anche per la cavalleria. In perfetta sintonia con le fonti scritte anche le immagini del Salterio ne fanno un’arma alquanto diffusa.
E’ stato fatto notare da Ganshof che nel Capitulare missorum di fine VIII secolo l’arco non viene indicato mentre nella lettera all’abate Fulrad, dell’806, viene citato. L‘ipotesi dello studioso è che l’adozione dell’arco sia successiva all’esperienza acquisita combattendo Avari e Slavi nel tardo VIII secolo, ma ci pare che questa interpretazione sia eccessiva dal momento che arco e frecce sono note tra i Franchi fin dai secoli V e VI come dimostrano alcune tombe merovingie. Il fatto che archi e frecce non siano elencati nella Lex Ribuaria può riflettere il loro basso valore economico, piuttosto che la loro rarità.
Non ci risultano evidenze archeologiche di epoca carolingia. Tre archi eccezionalmente ben conservati dalla necropoli alamanna di Oberflacht, risalenti quindi al VI-VII secolo, hanno grandi dimensioni e forma a D.
Dalle raffigurazioni del Salterio pare che fosse conosciuto anche l’arco composito ricurvo, che era in uso sia presso i Bizantini che i Longobardi, i quali a loro volta lo avevano acquisito dagli Avari.
In assenza di prove archeologiche l’uso di un tale arco non si può né confermare né smentire definitivamente, ma a nostro modesto avviso è molto probabile che sia la più tradizionale forma semplice che quella composita fossero conosciute dai Carolingi.
Non è affatto escluso infatti che l’arco ricurvo fosse adottato dalla cavalleria per le ridotte dimensioni, come presso gli Avari, mentre i fanti potessero permettersi solo archi più semplici e meno costosi, ma anche più ingombranti.
Le punte di freccia di epoca carolingia ad oggi rinvenute sono poche, ma presentano sia la tipologia romboidale che quella a coda di rondine, entrambe sono rappresentate in diverse miniature del Salterio di Stoccarda.
Nel Capitolare di Aquisgrana, associato all’arco, vengono richieste una corda di riserva e dodici frecce. E’ possibile che questo numero corrispondesse al contenuto di una faretra. Troviamo una faretra raffigurata nel folio 14v del Salterio di Utrecht: presenta un cappuccio assicurato con un cinturino, per la chiusura a protezione delle punte, e una cinghia per esser indossata a tracolla. E’ probabile che le faretre fossero costruite in legno o cuoio, ma non ne sono sopravvissute.
Arredi liturgici
Nella nostra ricerca per comprendere quanto sia attendibile l’iconografia del Salterio ci siamo imbattuti in un bellissimo lavoro di raffronto che riguarda lo specifico ambito liturgico. Si tratta dell’articolo di M. Beghelli e J. Pinar Gil che raccomandiamo vivamente per l’ampiezza di esempi riportati.
Qui ci bastano alcuni accenni. Prima di tutto osserviamo che l’arredo liturgico è per sua natura di tipo fortemente conservativo, sia per quanto riguarda le forme mantenute costanti a lungo nel tempo sia per la consuetudine all’uso prolungato degli arredi, in particolare quelli in materiali preziosi. Ci basti pensare a quanti calici, turiboli o patene siano ancora in uso presso le nostre chiese pur essendo stati prodotti nei secoli scorsi. Per l’epoca alto-medievale è dimostrata la stessa consuetudine.
Partendo da questo presupposto troviamo infatti una incredibile conformità tra le immagini miniate del Salterio e i reperti raccolti nell’area centro-europea e mediterranea per i secoli di nostro interesse.
Di seguito riportiamo alcuni esempi di tavole comparative dal lavoro citato.
C
Curiosità musicali: l’organo e la citola
Una nota a sé stante meritano le numerose raffigurazioni di strumenti musicali. Abbiamo qui per esempio quelle che probabilmente sono le prime raffigurazioni di un organo a canne a soffietto.
L’organo è uno strumento di origine antichissima. Il primo organo, l’hydraulis, fu costruito nel III secolo a.C. da Ctesibio di Alessandria.
Due antiche descrizioni dell’organo sono contenute nella Pneumatika di Erone di Alessandria (120 a.C.) e nel De architectura di Vitruvio (I secolo). L’aria, compressa da una o due pompe, faceva scendere il livello dell’acqua contenuta in una campana di bronzo o di rame immersa in un tino. L’acqua, a sua volta, spingeva poi l’aria verso le canne, facendole suonare. Sul somiere vi era una serie di tubi sonori, le canne, che fornivano tutte un suono differente in altezza, ma non in timbro. Vi era una tastiera collegata a valvole, che permettevano di suonare ogni singola canna. Nell’organo descritto da Vitruvio vi era anche un dispositivo per la selezione di una o più file di canne (registri). Già in epoca antica il complesso sistema idraulico di alimentazione viene sostituito con dei mantici o soffietti.
Impiegato nella civiltà romana e nell’area bizantina per celebrare festività pubbliche, esso avrà un cambiamento di destinazione dovuto a un evento casuale: nel 757 l’imperatore di Bisanzio, Costantino Copronimo, fece dono di un organo a Pipino il Breve, il quale lo collocò nella chiesa di San Cornelio a Compiègne, in Francia. Da allora iniziò la rapida diffusione dello strumento nei luoghi di culto cristiani e nella liturgia.
La raffigurazione dell’organo nel Salterio di Stoccarda, a circa 60 anni dal dono di Costantino V a Pipino il Breve, testimonia, forse per la prima volta, l’inserimento di questo strumento nei riti liturgici dell’VIII secolo.
Lo strumento musicale più frequentemente rappresentato nel manoscritto però è la Citola altomedievale, ben diversa dall’omonimo strumento di qualche secolo più tardi.
La Citola è uno strumento a corde pizzicate di oscura origine ma riccamente raffigurato nell’iconografia tardo medievale. In questo periodo possiede una cassa di risonanza generalmente di piccole dimensioni con fondo piatto e un manico fissato ad un’estremità della cassa, alla cui sommità trovano alloggio i piroli per l’accordatura. Le corde sono di diverso diametro e di eguale lunghezza. L’iconografia mostra chiaramente che veniva suonata “tastando”, ovvero le note mancanti nell’accordatura venivano ottenute accorciando, sul manico, le corde libere. Era quindi anche possibile ottenere gli intervalli di una scala cromatica e con una tecnica adeguata, controllare più suoni contemporaneamente (polifonia).
La Citola altomedievale o Carolingia è documentata iconograficamente esclusivamente sul manoscritto di Stoccarda. Nel coevo Salterio di Utrecht (815-835) è presente una raffigurazione già più vicina alla forma tarda.
La dimensione dello strumento nel manoscritto di Stoccarda risulta maggiore, circa un metro di lunghezza complessiva, e la sua forma più semplice, contrariamente alla citola del XIII-XIV secolo dalla caratteristica forma a “foglia di agrifoglio”. Nell’iconografia di Stoccarda non sono mai presenti i fori di risonanza, le corde sono in numero variabile e viene quasi sempre suonata con un plettro.
Sebbene alcuni liutai italiani si siano già dedicati alla ricostruzione della citola tardo medievale (qualche link in bibliografia), a oggi ci risulta in Italia una sola ricostruzione della citola carolingia, da parte del gruppo di ricerca musicale altomedievale Winileod.
Ne ha riprodotta una anche il gruppo polacco Tryzna costituito da rievocatori e ricercatori di musica medievale.
Un capitolo a parte merita l’analisi dell’abbigliamento, che vede accesi dibattiti tra gli studiosi relativamente alle influenze iconografiche presenti nel manoscritto e l’effettiva rappresentatività della realtà carolingia.
Noi per ora ci fermiamo qui.
Bibliografia e approfondimenti:
- Il Salterio di Stoccarda digitalizzato
- Davezac, Bertrand M. Maurice. The Stuttgart Psalter: Its Pre-Carolingian Sources and Its Place in Carolingian Art. Ph.D. Dissertation, Columbia University, 1971.
- DeWald, Ernest, T. The Stuttgart Psalter: Biblia folio 23, Württembergische Landesbibliothek, Stuttgart. Princeton: Department of Art and Archaeology of Princeton University, 1930. (Facsimile and commentary.)
- Renata Salvarani, Immagini del potere e della società. Spunti per una ricognizione iconografica in M. De Marchi (cura), La via Carolingia, Milano (Direzione Regionale per i Beni Ambientali e Paesaggistici) 2009
- Dodwell, C. R. The Pictorial Arts of the West, 800-1200. New Haven: Yale University Press, 1993.
- Mindell, Zoe. “Stuttgart Psalter”. Grove Art Online. Oxford Art Online. Oxford University Press.
- Maurizio Chelli, Manuale dei simboli nell’arte. L’era paleocristiana e bizantina, EDUP, Roma 2008.
- Egon Sendler, L’icona immagine dell’invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica, Edizioni Paoline, Roma 1988
- Württembergische Landesbibliothek. Der Stuttgarter Bilderpsalter. Bibl. fol. 23, Württembergische Landesbibliothek, Stuttgart. Stuttgart: Schreiber, 1968. (Facsimile and commentary.)
- La via Carolingia, Milano (Direzione Regionale per i Beni Ambientali e Paesaggistici) 2009, a cura di M. De Marchi
- Carolingian Arms and Armor in the Ninth Century, Simon Coupland, Viator: Medieval and Renaissance Studies: v.21 (1990)
- De Norske Vikingsverd (The Norwegian Viking Swords), Jan Petersen (1919)
- A Record of European Arms and Armour Through Seven Centuries, Sir Guy Francis Laking (1919)
- Geibig, Alfred, Beiträge zur morphologischen Entwicklung des Schwertes im Mittelalter: Eine Analyse des Fundmaterials vom ausgehenden 8. bis zum 12. Jahrhundert aus Sammlungen der Bundesrepublik Deutschland (Neumünster: Karl Wachholtz Verlag, 1991) (German).
- Oggetti preziosi segni distintivi carolingi della Croazia. I tesori della Croazia altomedievale, Ante Milosevic in Atti del Convegno di Studio Brescia 11-13 ottobre 2011 L’Adriatico dalla tarda antichità all’età carolingia
- Type K Carolingian Swords, Goran Bilogrivic, OPVSC. ARCHÆOL. VOL. 33 STR. / PAGES 1–244, ZAGREB 2009 (English)
- ALLA SCOPERTA DEI SUONI PERDUTI canti suoni e musiche antiche, Atti del convegno tenuto a CastelBrando di Cison di Valmarino nel settembre 2003
- Guido Facchin, Le percussioni (Edizione ampliata), EDT Torino, 2000
- Paola Brancato, Il salterio ad arco, 2012
- Research on the citole and its development
- Ricostruzione Citola di Parma, XII secolo, Liuteria Severini
- Gli strumenti musicali nella Maestà di Ambrogio Lorenzetti
- LA RICOSTRUZIONE DEGLI STRUMENTI MUSICALI MEDIEVALI (X°-XIV° sec.)Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, diretto da Alberto Basso, Il Lessico, vol. III, Torino, UTET, 1984Sandro Dalla Libera, L’Organo, Milano, Ricordi, 1956
- The classical and medieval organ in Oxford Music Online
- Il Salterio Aureo digitalizzato
- Capitularia regum francorum
- Salterio di Corbie digitalizzato
- Iconografia di IX secolo
- POLYPTYQUE DE L ABBAYE DE SAINT- GERMAIN DES PRÉS, IMPRIMERIE G. DAUPELEY-GOUVERNEUR A NOGENT-LE-ROTROU. TOME II, 1886-1895
- Michelle Beghelli · Joan Pinar Gil, CORREDO E ARREDO LITURGICO NELLECHIESE TRA VIII E IX SECOLO,
- JAHRBUCH DES RÖMISCH-GERMANISCHEN ZENTRALMUSEUMS MAINZ60.
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