Ebbene sì, non abbiamo saputo resistere e in un piovoso fine settimana abbiamo deciso di regalarci una gita davvero speciale: la visita al Musée de Cluny, a Parigi, prima che l’eccezionale mostra Les temps mérovingiens si concludesse, il prossimo 13 febbraio 2017.
Il Museo si trova nel quartiere latino di Parigi, a distanza non eccessiva dalla Sorbona. L’edificio fu fatto erigere nel XV secolo dall’abate Jacques d’Amboise di Cluny. Si tratta di un hôtel particulier, ovvero di un palazzo cittadino, edificato con le fogge di una villa nobiliare di campagna, come ve ne sono parecchi sia nella capitale francese che altrove. La costruzione si interseca, nella zona occidentale, con le antiche terme romane e nell’insieme costituisce una cornice di per sé estremamente suggestiva.
Il Museo fu fondato nel XVIII secolo da Alexandre Du Sommerard, militare poi entrato alla Corte dei Conti (1779-1842), che in tempi in cui il Medioevo non andava affatto di moda si era appassionato all’epoca e ai suoi oggetti, mettendo insieme una vasta collezione. Per meglio allocarla decise di acquistare l’Hôtel des abbés de Cluny. Alla sua morte, quando il romanticismo aveva ormai riportato alla ribalta il Medioevo, lo Stato acquisì l’Hotel, le collezioni e le Terme creando ufficialmente, nel 1843, il Museo nazionale del Medioevo.
Le collezioni stabili sono:
- Antichità e alto Medioevo (allestita nello spazio delle Terme e dedicata alla Gallia romanizzata)
- Mondo romanico (X – XI secolo: sculture, vetrerie, codici miniati)
- Scultura gotica (XII – XIII secolo: elementi decorativi dalle abbazie di Saint-Germain-des-Prés, di Sainte-Geneviève, di Saint-Denis, della Sainte-Chapelle e di Notre-Dame)
- Vetrate
- Oreficeria e avori (oreficeria, smalti, avori sacri e profani dall’XI al XIV secolo)
- Tappezzerie e tessuti
- Vita quotidiana nel Medioevo (oggetti d’arredamento, accessori domestici, armi)
In questa particolare occasione, tramite notevoli collaborazioni con la Biblioteca Nazionale Francese e alcuni prestiti da altri musei, come quello di Strasburgo, si è ottenuto un eccellente spaccato del periodo che va dalla battaglia dei Campi Catalauni nel 451 alla deposizione dell’ultimo re Merovingio nel 751: esattamente tre secoli raccontati con manufatti straordinari.
Gli oggetti conservati nel Museo sono tali e tanti che ci hanno richiesto due visite separate: una per apprezzare le centinaia di oggetti normalmente ospitati e una per la sola mostra.
In un’atmosfera piacevole e rispettosa, affollata di attenti e silenziosi visitatori, nella penombra delle antiche sale termali romane ecco, finalmente, apparire lo splendore dell’epoca Merovingia per cui avevamo viaggiato fino a lì.
Il trono di Dagoberto
Non appena entrati in quello che fu il frigidarium delle antiche terme, dal fondo della sfilata di teche, vi colpisce la vista del Trono di Dagoberto. Un sedile tradizionalmente collegato al re Dagoberto, che morto a Parigi nel 639, fu il primo re a essere sepolto nella basilica di Saint-Denis. Fino ad allora, il mausoleo dei sovrani Neustriani era la basilica di Saint-Germain-des-Prés: da quel momento Saint-Denis, fondata da santa Genoveffa presso la tomba del protovescovo parigino san Dionigi, divenne il luogo di sepoltura più prestigioso di Francia. Dell’arredamento della basilica, fatta ampliare da Dagoberto, fu incaricato il vescovo Eligio di Noyon, monetiere e poi tesoriere di Dagoberto, nonché rinomato orafo. L’importante seggio viene tradizionalmente attribuito proprio a sant’Eligio.
E’ l’abate di Saint-Deny, Suger, a denominarlo trono di Dagoberto nel 1154 descrivendolo come il seggio su cui i re di Francia ricevevano il primo omaggio da nobili e alti prelati dopo l’incoronazione. In occasione di un restauro del 1294 viene datato tra il 588 e il 659. Attraverso numerosi restauri è sopravvissuto come forte simbolo monarchico fino a Napoleone I, che fu l’ultimo utilizzatore. La struttura in bronzo dorato è ispirata alle selle curuli dell’antichità, note fin dagli etruschi. I montanti sono a forma di protome di pantera, la seduta era in cuoio e fissata alle sbarre laterali del seggio, in origine pieghevole. Le componenti dei braccioli e dello schienale sono incernierati fra loro e pertanto smontabili, facendone un seggio da campagna, facilmente trasportabile.
A causa delle molte parti sostituite nel corso dei restauri la datazione effettiva è particolarmente difficile. Alcuni studiosi lo fanno risalire all’VIII – IX secolo in base a considerazioni stilistiche, ma sono in corso analisi metallurgiche più dettagliate da comparare con elementi metallici di più certa datazione. Il fascino di tanta storia è comunque notevole e fortemente percepibile.
Il tesoro di Childerico
Altra bacheca dalle grandi emozioni è quella dedicata al tesoro di Childerico a cui abbiamo già dedicato ampio spazio in un altro articolo, ma che è stato particolarmente gratificante vedere da vicino. La finezza della lavorazione di ciascuno degli oggetti del corredo non è assolutamente resa nemmeno dalle eccezionali foto del catalogo della mostra, di qualità indiscutibilmente superiore alle nostre. E’ un corredo che va visto di persona per apprezzarne davvero lo splendore. Le nozioni aggiuntive sulle condizioni del rinvenimento integrano la sensazione del grande capo ancora fortemente “barbarico” sebbene esplicitamente romanizzato, come si evince dall’anello sigillo recante il suo nome e dalla fibula aurea militare. La sepoltura di Childerico era circondata da tre fosse in cui giacevano una trentina di cavalli sacrificati e gli oggetti personali e rituali, come la testa di ascia franzisca, rammentano l’inumazione di un principe delle steppe, paragonandolo al funerale di Attila narrato da Jordane.
Il tesoro di Arnegonda
Altro corredo esposto alla mostra, e di grande fama tra i cultori del periodo, è quello proveniente dalla tomba di Arnegonda, una delle mogli di Clotario, rinvenuta nella cripta di Saint-Denis solo nel 1959 e identificata grazie all’anello sigillo recante il suo nome. La deposizione risalente alla fine del VI secolo, attorno al 580, appartiene a una donna sui sessant’anni ed era particolarmente ben conservata dalle infiltrazioni grazie al sarcofago in pietra. Questo consentì di rinvenire frammenti di tessuto sufficienti alle analisi che rivelarono la presenza di un velo in sciamito di seta, un abito in lino e una sopravveste in seta rossa bordata con ricami in oro, questi ultimi esposti nella mostra.
Il corredo è costituito da una grande fibbia in argento, bronzo dorato e granati, già testimoniata in altre sepolture datate attorno al 560, un paio di orecchini a cestello di stile bizantino, in opposizione al tipico orecchino poliedrico franco, tre spilloni crinali, di cui due più piccoli in oro e uno di grandi dimensioni in argento dorato e granati, l’anello sigillo con il nome inciso, fibbie e puntali in argento appartenenti alle giarrettiere, due grandi fibule di forma rotonda in oro e granati. Queste ultime costituiscono un caso particolare dal momento che tali fibule vengono solitamente ritrovate in un singolo esemplare e indossate in posizione centrale. Una più approfondita analisi rivelò che una delle due era copia di minor pregio dell’altra, il che fece supporre che l’originale fosse stata creata per essere indossata singolarmente e la copia sia stata appositamente eseguita per un diverso uso dei due oggetti, rispetto alla “moda” bizantina del VI secolo. In sostanza Arnegonda cedette alle lusinghe di indossare oggetti “esotici” a testimonianza del proprio alto rango, ma confermò la tradizione franca, e generalmente germanica, dell’uso delle fibule in coppia. L’evoluzione successiva al VI secolo fu infatti l’adozione della fibula tonda singola.
Per alcune ulteriori considerazioni sulla ricostruzione dell’abito e la disposizione del corredo vi invitiamo a leggere questo articolo o questo.
Il tesoro di Saint Germain
Germain, appartenente a una ricca famiglia di Treviri, nell’attuale Germania, dopo la sua formazione presso il vescovo di quella città, divenne monaco dell’Abbazia di Luxeuil , fondata da San Colombano. Il duca Gondoin, uno dei principali signori di Alsazia, volendo fondare un monastero nella diocesi di Basilea in un luogo chiamato Grandval, ricorse all’abate di Luxeuil che inviò Germain con alcuni compagni, tra cui Randoaldo. Germain divenne così il primo abate di Moutier-Grandval. Dopo anni di pace, nel 675, il duca di Alsazia, Cathic, venne a devastare il paese e, in particolare, la valle di Delémont. Coraggiosamente, Germain e Randoaldo gli andarono incontro in paramenti sacerdotali e trovandolo nella chiesa di Saint Maurice a Courtételle, lo ammonirono. Mentre facevano ritorno, uno dei luogotenenti di Cathic, con alcuni uomini, li seguì e raggiuntili, li assassinò a colpi di lancia. All’abate vennero in seguito attribuiti eventi miracolosi e fu venerato da subito come santo.
Al Musée Jurassien d’Art et d’Histoire sono conservati cinque oggetti collegati per tradizione a Saint Germain: un pastorale, due scarpe e due calze.
Il pastorale costituisce un alto esempio di oreficeria e risulta essere il più antico pastorale decorato al mondo. La sua immagine di dettaglio è stata scelta come icona dell’intera mostra. Esaminato al carbonio 14 il legno di nocciolo che costituisce l’interno dell’oggetto ecclesiastico ha restituito una data approssimativa del 665, sovrapponibile alle notizie anagrafiche sul santo e compatibile con l’analisi stilistica dell’opera orafa che lo impreziosisce. I motivi ad ‘S’ e il cloisonnè sono infatti coerenti con altri gioielli del VII secolo. Gli smalti disposti a spina di pesce sono invece indice di restauri in epoca carolingia. Le scarpe in cuoio sono decorate con ricami in seta rosa e l’analisi del cuoio ha confermato la comunanza con altri reperti provenienti da Saint-Denis e appartenenti al primo medioevo. Le calze sono gli oggetti più enigmatici. Sono state eseguite in filo di lino lavorato con un solo ago, secondo una tecnica che dovrebbe essere giunta nell’Europa centrale solo nel XII secolo, proveniente dai paesi nordici e nota come nalbinding, ma questa tecnica è testimoniata nel mondo copto fin dal 500. Inoltre la bordura di una delle calze, che costituisce una coulisse per i lacci, è in sciamito di seta con una lavorazione comune nei tessili di area bizantina tra il V e il VII secolo e paragonabile a resti tessili relativi a Bathilde e Bertilla provenienti da Chelles.
Le didascalie e il catalogo non traggono particolari conclusioni, ma ci sono almeno due ipotesi possibili relative alle calze: potrebbero essere manufatti confezionati in area mediterraneo-bizantina, il che giustificherebbe sia il tessuto della coulisse che la lavorazione ad ago singolo del lino, oppure, nel caso il solo tessuto provenisse dal mondo bizantino e il confezionamento fosse stato svolto in area germanica, si dovrebbe ammettere una retrodatazione della tecnica di tessitura finora ritenuta più tarda in quest’area geografica, ma diffusa nelle aree circostanti, sia a nord che a sud.
La cintura di Saint Césaire
Un altro oggetto piuttosto noto agli appassionati del periodo è la fibbia da cintura di Saint Césaire. Costui fu vescovo dal 502 al 542, anno della sua morte, nell’importante città di Arlés che vantava già all’epoca una storia plurisecolare. Tra i vari oggetti appartenuti al vescovo e conservati come reliquie vi è una fibbia in avorio di notevoli dimensioni, 10 per 5 cm, la cui superficie esterna è completamente decorata. L’anello presenta una lavorazione a grappoli d’uva e pampini, mentre la placca presenta una bordura a ogive che racchiude la scena dei due militi addormentati durante la guardia al Santo Sepolcro. L’insieme ha una resa incredibile di prospettiva, con i soldati in primo piano e la tomba in forma classica di tholos in lontananza. Trasmette una sensazione monumentale sebbene si tratti di fatto di un soggetto miniato ed è palesemente frutto di una tradizione classica, sebbene rivisitata. Le caratteristiche di questo manufatto fanno chiaramente ritenere che l’artefice avesse dimestichezza con le grandi opere dell’antichità il che è compatibile sia con una bottega dell’impero bizantino che con una locale della città di Arles, dove la presenza imperiale ha lasciato testimonianze grandiose apprezzabili ancora oggi.
La corona di Guarrazar
Compare tra le meraviglie esposte anche un oggetto proveniente dalla Spagna Visigota del VII secolo, quindi non propriamente merovingia, ma coeva.
Si tratta di una delle ventisei corone votive rinvenute tra il 1858 e il 1860 a La Fuente de Guarrazar, nei pressi di Toledo in Spagna.
La corona votiva in oro e preziosi è un oggetto di tradizione bizantina che incontra, con felici risultati artistici, le capacità orafe e il gusto barbarici. In Italia, nel medesimo periodo, abbiamo la Corona di Teodolinda.
Il tesoro di Guarrazar fu molto probabilmente nascosto all’arrivo in Spagna delle truppe arabo-berbere condotte da Tariq-Ibn-Ziyad nel 711. Una delle corone porta come pendenti le lettere che compongono il nome Recesvinto, re visigoto che regnò dalla capitale Toledo tra il 653 e il 672, determinando la datazione delle bellissime opere di oreficeria.
Le vicissitudini del tesoro furono molte. Quattordici corone, quelle ritrovate nel 1858, furono immediatamente fuse a Madrid e due di quelle rinvenute nel 1860 furono rubate nel 1921 dal Palazzo Reale di Madrid. Inoltre va segnalato che lo stato di rinvenimento non era perfetto: molte componenti delle corone come croci, pendenti, catene, giacevano separatamente. L’opera di ricomposizione potrebbe quindi non aver rispettato perfettamente lo stato originale, ma è stata eseguita tenendo conto delle somiglianze tecniche e stilistiche tra le varie parti. Il Museo di Cluny conservava inizialmente, a partire dal 1864, le otto corone ritrovate nel 1859 e una delle quattro venute alla luce nel 1860. In seguito ad accordi di scambio con il governo spagnolo risalenti al 1941, rimangono al Museo francese tre corone, oltre a una croce e sei elementi separati. Tutte le altre sono attualmente esposte al Museo Arqueológico Nacional di Madrid.
La corona esposta è in oro, decorata con tre ordini di zaffiri, smeraldi, perle, cristallo di rocca, madreperla e vetri montati a cabochon. La croce patente è rivestita in foglia d’oro e ornata su ambo i lati da cabochon con due pendenti in ametista e uno in diaspro rosso.
Una piccola curiosità: a pagina 115 del catalogo ufficiale della mostra la stessa corona viene fotografata con una diversa croce, quella cosiddetta di Sonnica, dal nome dell’offerente risultante dall’incisione IN D[OMIN]I NOMINE OFFERET SONNICA S[AN]C[T]E MARIE IN SORBACES riportata sulla croce stessa. La croce esposta associata alla corona è invece raffigurata sul catalogo a pagina 108. Nell’ampia descrizione viene precisato che la croce con pendenti è ritenuta più attinente alla corona, ma la foto evidentemente era già stata scattata su un diverso assemblaggio.
La croce con pendenti, sebbene attualmente associata alla corona votiva, è per forma e decorazione molto simile alle croci pettorali di stile bizantino, un esempio delle quali è riportato in forma di ricamo sulla famosa casula di Santa Bathilde, annunciata anch’essa in esposizione e presente sul catalogo, ma (con nostro grande disappunto) non esposta.
I testi
I tesori non sono sempre d’oro e pietre preziose. Un aspetto del periodo merovingio ampiamente rappresentato nel corso dell’esposizione è quello delle testimonianze scritte. Come non deliziarsi davanti ai più antichi manoscritti delle opere che ci danno notizia dell’epoca merovingia? Senza di loro molti degli oggetti esposti perderebbero di comprensibilità per noi.
La scrittura fu inventata “per la memoria delle cose” secondo una formula cara a Isidoro di Siviglia, ma non solo le parole tramandano memoria. Anche gli strumenti con cui essa viene tracciata lasciano memoria della storia umana. Parole incise sulla pietra, forgiate in metallo, ricamate o tessute, create con le tessere di un mosaico. Attraverso i manoscritti esposti alla mostra non solo prendiamo contatto con i testi dei maggiori descrittori dell’epoca merovingia, Gregorio di Tours (538-594) con la sua Historia Francorum , Fredegario con la Chronaca (…-660) , Venanzio Fortunato (530-607) con i suoi Poemi e le sue Biografie, Isidoro di Siviglia (590-636) con le sue opere storiche ed enciclopediche, ma possiamo apprezzare l’evoluzione della parola scritta come elemento culturale, artistico e tecnologico.
L’inizio dell’era merovingia coincide con l’evoluzione del supporto per la scrittura. Se la pergamena era già comparsa nell’Impero romano fin dal I secolo, essa era comunque utilizzata per usi minori. Questo supporto poco a poco sostituisce il papiro e si dimostra di più facile reperimento nell’area settentrionale della Gallia dove si collocano i nuovi centri culturali del VII secolo.
La raccolta di opere di Sant’Agostino realizzata nell’Abbazia di Luxeuil nel VII è uno degli ultimi manoscritti copiati su papiro. La pergamena merovingia è però di qualità scadente e spesso riutilizzata con la tecnica del palinsesto.
Seppur tenendo ben presente che la nostra è una visione parziale dell’intera produzione altomedievale, siamo in grado anche di intravvedere l’evoluzione dei caratteri stessi utilizzati nella ricopiatura dei testi.
Sono moltissimi i temi trattati dalla mostra attraverso reperti tutti egualmente incredibili, ben illustrati e perfettamente inquadrati in percorsi tematici che hanno toccato ogni aspetto noto dei tre secoli merovingi. Dalle lapidi agli ornamenti, dagli armamenti ai vetri, ma come è comprensibile non possiamo descrivere ogni cosa. Ve ne diamo un assaggio con una carrellata di immagini.
Consigliamo però vivamente agli interessati l’acquisto del catalogo: ben al di sopra del semplice elenco di oggetti esposti, contiene saggi notevoli e illustrazioni strabilianti. Disponibile in francese e inglese.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.