Che sia un’appassionata di Rievocazione e di Alto Medioevo pare che non sia un segreto 🙂 e questo articolo lo voglio dedicare a tutte le rievocatrici e rievocatori che negli anni hanno dibattuto tra loro per le decorazioni dei loro abiti.
Sto parlando di quella affascinante e meravigliosa epoca, l’Alto Medioevo, di cui restano poche fonti scritte, pochissimi reperti tessili e scarsa iconografia. Quel periodo in cui, per un ricostruttore, le opinioni e le ipotesi sono più frequenti delle certezze. E sto parlando di Longobardi.
Chi non è addentro alla rievocazione si chiederà che problema potranno mai rivestire delle passamanerie.
Un bel problema se vogliamo creare un abito con rigore filologico che corrisponda il più possibile a quello che sappiamo.
La descrizione letteraria
Abbiamo da un lato Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum che ci dice:
“Vestimenta vero eis erant laxa et maxime linea, qualia Anglisaxones habere solent, ornata institis latioribus vario colore contextis.
che viene interpretato normalmente con “I loro abiti erano ampi e principalmente in lino, come sono soliti portare gli anglo-sassoni, ma ornati con guarnizioni più larghe intessute di vario colore”.
dove però, secondo il mio fedele “Dizionario di Lingua Latina Castiglioni – Mariotti”, vario ha come prima traduzione variegato, policromo, variopinto.
La versione italiana dell’Historia, traduzione di Luigi Giavardi, ed. De Agostini 1974, infatti lo rende così:
“I loro vestiti erano larghi e generalmente intessuti di lino quali li sogliono portare gli Anglosassoni e come ornamento avevano bande intessute a vari colori, ma più larghe dei vestiti anglosassoni”
Nella traduzione di A. Zanella, ed. Bur, 1991, si legge così:
“I loro abiti erano lunghi e fatti soprattutto di lino, come usano gli Anglosassoni, ornati con decorazioni intessute di vari colori“.
Quindi, contrariamente a quanto normalmente viene inteso dalla maggior parte dei rievocatori, non si deve interpretare soltanto che la guarnizione è di colore diverso dal restante tessuto, ma che contiene in se stessa diversi colori?
Le altre cinque occasioni in cui Paolo Diacono utilizza l’aggettivo “vario” lo fa nell’accezione di “vario genere, diversi, svariati”, ma in quei casi anche il contesto è diverso, si parla di vario genere di bevande o vario genere di armature, o differenti popoli.
Quel termine contextis, che deriva da contexo, “tessere assieme”, del resto, è diverso da dētexo, che vuol dire semplicemente tessere o da intexo che vuol dire intrecciare, ornare intessendo, ricamare.
E tessere assieme ha senso se parliamo di fili diversi, altrimenti è solo tessere.
Aveva per il Diacono Paolo lo stesso significato del latino classico, o era usato in modo differente nell’VIII secolo? Che competenze aveva il nostro buon storico per voler o saper distinguere tra tessitura, broccato o ricamo?
Sono bordure ricamate, fatte con un tessuto a motivi, possono essere tessuti spinati o a losanghe in colori diversi, vengono aggiunti (institis) broccati o passamanerie (vario colore contextis)?
Come possiamo sincerarci del reale significato di questa succinta e un po’ oscura descrizione? In teoria con l’aiuto di reperti e iconografia.
L’iconografia
L’iconografia è presto scorsa poiché gli esempi non sono tantissimi.
Il famoso Piatto di Isola Rizza, quasi certamente antecedente all’arrivo longobardo in Italia, ma raffigurante almeno due guerrieri germanici, ci dà conferma della decorazione “variegata” a T della tunica e addirittura dei pantaloni. Ma ahimè, è un’incisione su metallo e quindi non ci dà conto, né dei colori né del tipo di tecnica decorativa.
L’altrettanto famoso anello-sigillo di Rodchis rinvenuto a Trezzo, della seconda metà del VII secolo, presenta una decorazione sulle spalle che si estende alla parte superiore del braccio e un’ulteriore decorazione sul polso, ma pone gli stessi problemi nell’identificare la tecnica.
Un San Michele Arcangelo dal santuario di Monte Sant’Angelo, anch’esso del VII secolo, ha tunica con bordo inferiore, scollo a T e polsi altrettanto decorati, ma ci lascia gli stessi dubbi.
Ci sono poi i mosaici da Cartagine, in Tunisia, e dal pavimento della chiesa bizantina di Sant’Elia a Kissufim, nel Negev israeliano, che qualche ricostruttore ha un certo timore ad inserire nelle fonti, ma non dovrebbe.
Riporto da un riassuntivo lavoro di Aliza Steinberg:
I trentadue cacciatori raffigurati nei mosaici israeliani, sono rappresentati nudi, parzialmente nudi o vestiti in diverse fogge tra cui: vestiti di base decorati con clavi, segmenta, orbicula e tabula, cinture, un ulteriore capo per la parte superiore e scarpe di vario tipo. Sin dall’inizio del VI secolo è evidente la comparsa di un nuovo tipo di abbigliamento che comprende pantaloni, tunica manicata ornata con una bordura a T decorata a losanghe e una cintura con pendenti cui potrebbero essere appesi vari oggetti. Gli studiosi che si sono occupati di queste cinture e tuniche hanno indicato che, da un punto di vista bizantino, identificassero la classe e l’occupazione delle figure barbariche. Inoltre sostengono che i lunghi capelli, acconciati “a caschetto”, la fisionomia, la barba e i baffi, indicano che gli artisti volessero rappresentare personaggi barbari e non bizantini.
Per evidenziare questa nuova “moda barbarica” intervenuta nel VI secolo, cita un certo numero di fonti dal mediterraneo bizantino.
Il confronto con l’abbigliamento romano tardo antico è evidente nelle immagini seguenti:
Sembra comunque di capire che nel VI e VII secolo, i barbari germanici venissero raffigurati, in area mediterranea, con pantaloni e tuniche con guarnizioni a T, proprio per distinguerli dai personaggi autoctoni con tuniche a clavi simmetrici, orbicula, tabulae e segmenta.
Trovo però l’affermazione di Aliza Steinberg un po’ rigida. Probabilmente la situazione in quel periodo era più fluida di quanto, nel nostro sforzo di comprensione, cerchiamo di stabilire. Come mi è stato fatto notare da alcuni amici ricostruttori, che ringrazio, sia lo scollo della tunica che la pettinatura a “caschetto” compaiono in mosaici chiaramente bizantini e chiaramente riferiti a personaggi non-barbari. Piuttosto, forse, ogni raffigurazione andrebbe contestualizzata caso per caso.
Mi piace citare anche due esempi che mi hanno messo un po’ in difficoltà:
il primo è il famoso avorio Barberini, oggi al Louvre e datato al VI secolo, raffigurante il trionfo di un imperatore la cui identificazione più accreditata è quella di Giustiniano.
Nel pannello centrale e in quello inferiore sono raffigurati tre “barbari sottomessi” come si evince, in un caso, dalla mano destra poggiata alla lancia e la sinistra levata in alto ma soprattutto dagli altri due recanti doni. Queste tre figure indossano pantaloni e tunica, entrambi guarniti con strisce segnate da linee incrociate, ad indicare un’ulteriore decorazione. Con capelli e barba lunghi i tre personaggi presentano però un cappello di “tipo frigio” (così nelle fonti) e una decorazione anche frontale ai pantaloni, il che li colloca nell’area orientale dell’impero.
Gli studiosi li interpretano come Persiani, con cui Giustiniano concluse una difficile pace nel 532.
Se ne possono trarre diverse conclusioni: che la modalità di raffigurare i barbari seguisse una sorta di stilema, oppure che la moda della tunica a T fosse molto più diffusa, fuori dall’Impero, e non esclusivamente germanica oppure che la stessa moda germanica avesse subito influssi orientali. Un ragionamento similare a quello che abbiamo dovuto compiere nel caso della diffusione dello Spangenhelm.
A complicare ulteriormente le cose è un’altra meravigliosa opera in avorio del VI secolo, ovvero la cosiddetta Cattedra di Massimiano conservata al Museo Arcivescovile di Ravenna, ritenuta dono di Giustiniano a Massimiano di Pola, nominato dall’imperatore Arcivescovo di Ravenna nel 546, opera di officine del Mediterraneo Orientale.
Tra le numerose formelle di squisita fattura compare il ciclo vetero testamentario di Giuseppe. In alcune raffigurazioni appartenenti a questo ciclo diverse figure presentano tuniche con decorazioni a T e bordi dei pantaloni decorati.
La sola differenza tra queste rappresentazioni e quelle dei Persiani dell’avorio Barberini è l’assenza del berretto frigio, mentre la striscia decorativa verticale sui pantaloni compare una sola volta. Due soldati affiancati nella stessa scena presentano uno la striscia verticale sui pantaloni e l’altro motivi decorativi distribuiti sul tessuto dei pantaloni ma senza striscia verticale, facendo apparire la presenza di questa come una variante possibile, ma non caratterizzante.
Nonostante rappresentino soldati egiziani o lo stesso Giuseppe, ebreo schiavo in Egitto presso Potifar e poi presso il Faraone, gli abiti di queste figure non differiscono molto dalla raffigurazione di altri “non-romani”.
Se pensiamo ai nostri ricostruttori/rievocatori longobardi iniziamo a comprendere che la presenza di una disposizione degli ornamenti piuttosto di un’altra può essere importante per collocare la loro appartenenza etnico-culturale.
Sul “tipo” di decorazione però non abbiamo ancora fatto passi avanti.
I reperti
Tra i reperti copti, abbondantissimi grazie alle condizioni climatiche favorevoli alla conservazione, ci restano decorazioni applicate o intessute direttamente nelle tuniche con una tecnica definita a tappezzeria (tapestry weaving), altri frammenti sono broccati o ricamati, ma essendo per la maggior parte decontestualizzati, la loro appartenenza originaria a indumenti o altri tipi di tessili è ignota. Per farvene un’idea ne trovate qualche centinaio qui.
Non sono riuscita a trovare, tra questi, esempi chiaramente riferibili a tuniche con decorazioni a T, anche se mi sarebbe sembrata un’ottima resa della definizione “guarnizioni intessute con vari colori”.
Qualche caso mi ha lasciato in dubbio a lungo, come quello nella foto qui sotto, in cui, sebbene non a T, la decorazione attorno al collo e sulle spalle, sia del tutto paragonabile a quella dell’anello-sigillo di Rodchis. La decorazione è composta da un’applicazione di tessuto elaborato, i cui orli cuciti alla tunica vengono rinforzati e coperti da una passamaneria, la cui tecnica di realizzazione non mi è abbastanza chiara dall’immagine, ma che mi riservo di approfondire. Il dubbio è dovuto all’assenza del corpo e delle maniche, il che non permette di valutare l’eventuale presenza di orbicula, segmenta o altri elementi considerati copto-bizantini.
Ma, con riferimento alla fluidità di cui sopra, il reperto vale la pena di essere segnalato.
Non abbiamo altrettanta fortuna con i reperti italiani. Come ben sappiamo le caratteristiche di suolo e clima non favoriscono la persistenza delle fibre tessili, se non in minima parte e sotto forma di pseudomorfi metallici.
Non disponiamo quindi di interi indumenti, ma nemmeno, purtroppo, delle singole eventuali decorazioni come accade per quelle copte. Quello che abbiamo sono però alcuni elementi su cui ragionare.
I fili aurei
Il primo è un discreto numero di ritrovamenti di fili aurei provenienti da varie regioni dell’Italia longobarda: in Piemonte a Rivoli e Collegno, in Trentino a Civezzano, in Lombardia a Trezzo, Monza, Garlate, Albegno, S. Bassano, Offanengo, Brescia, Leno e Sirmione, in Friuli a Cividale, in Emilia a Parma e Spilamberto, nell’Italia centrale ad Arezzo, Fiesole, Nocera Umbra e Castel Trosino, in Puglia a Rutigliano.
Un interessantissimo lavoro di studio e confronto, ma anche di ricostruzione, è quello pubblicato da Caterina Giostra e Paola Anelli, le cui conclusioni sono:
Le bordure in broccato d’oro delle quali si rinvengono i resti nelle tombe longobarde dovevano essere prodotte mediante telai a tavolette, quindi con strumenti piuttosto elementari – seppure assai versatili –e poco ingombranti, e tramite una lavorazione non troppo complessa, almeno per motivi poco articolati come quelli documentati mediamente nelle tombe italiane. Semmai, è l’impiego di materiali sofisticati (la sottilissima striscia aurea e i filati molto fini) che induce a ipotizzare centri specializzati anche nella realizzazione dei preziosi fili o comunque in laboratori che potevano disporne. Questi potevano trovarsi all’interno del Regnum, senza implicare necessariamente importazioni dai territori ancora sotto il controllo bizantino, dai quali pure provenivano raffinati beni di pregio: l’area di maggiore diffusione della tessitura a tavolette tra antichità e alto medioevo, infatti, e soprattutto l’impiego del nastro piatto e non ritorto lasciano intravedere la possibilità di una consuetudine artigianale tipica delle popolazioni germaniche, pur nell’ambito della più estesa pratica di decorare gli abiti con fili o laminette in metallo prezioso, comune a numerose culture ed espressa mediante svariate soluzioni tecniche e stilistiche.
Il telaio a tavolette è uno strumento molto semplice, che poteva anche essere costituito da due supporti verticali, o da un solo supporto se l’altra estremità del lavoro veniva fissato, per esempio, alla cintura. Tra i due supporti vengono mantenuti tesi i fili dell’ordito che vengono fatti passare attraverso i fori di un certo numero di tavolette. Ruotando le tavolette si distanziano i fili di ordito tra loro consentendo il “passo” attraverso cui scorre la trama, come in un normale telaio.
La tecnica del broccato con tavolette inserisce una trama aggiuntiva, nei casi specifici fili d’oro, in base a uno schema, creando un disegno a rilievo sulla base del nastro tessuto dalle tavolette.
La tecnica della tessitura a tavolette è attestata anche per la produzione delle bordure (cimose) dei tessuti prodotti a telaio verticale a pesi.
Il broccato, quindi l’aggiunta di un’ulteriore trama, in fili metallici o no, è una tecnica utilizzata anche nella normale tessitura a telaio, quindi per stoffe di pezzatura più ampia di un semplice nastro come quello ottenibile con le tavolette.
Ne deriva che i nostri ritrovamenti in filo aureo potrebbero appartenere a bordure laterali intessute con tavolette, ma direttamente sul telaio verticale, o essere decorazioni più centrali al tessuto stesso, con trama aurea aggiunta durante la produzione della pezza del tessuto di base.
Tuttavia una serie di parametri che potrete leggere nel lavoro di Giostra e Anelli sembra confermare l’uso della tecnica a tavolette per la creazione di singoli nastri di broccato.
E’ interessante notare che il lavoro di Giostra-Anelli evidenzia anche una precisa tipologia di produzione germanica nel filo aureo rinvenuto nelle tombe esaminate. Gli esempi di filo aureo da broccato romano, infatti, sono costituiti da una lamina metallica ritorta intorno a un filo in fibra tessile, mentre quelli da tombe longobarde sono costituiti da solo metallo in lamina appiattita. Questa caratteristica ci indica che la lavorazione a broccato in filo metallico è stata sviluppata, forse a imitazione, anche nell’area etnico-culturale germanica e che questa tecnologia è sicuramente identificabile.
Le tavolette
I fili aurei longobardi ritrovati, e definiti da questi studi come appartenenti a passamanerie eseguite con tavolette mediante la tecnica del broccato, ci portano a una serie di considerazioni.
Sono certamente oggetti molto pregiati, riferiti a inumazioni di personaggi di alto rango, ma non sono oggetti di importazione bizantino-orientale.
Anzi, tavolette da tessitura sono state rinvenute in area europea, risalenti al periodo altomedievale, quasi sempre nel formato a quattro fori, e in Italia ne sono state ritrovate in osso sia a Noli risalenti all’VIII-IX secolo che a Belluno risalenti al VII secolo. Curiosamente né a Noli né a Belluno sono stati però ritrovati, ad oggi, fili aurei.
Se i corredi più ricchi presentavano passamanerie con broccati aurei, non è possibile che le classi meno facoltose utilizzassero il broccato con fili di colore in contrasto sebbene non preziosi?
Potevano essere prodotte tramite tavolette anche passamanerie con tecniche diverse dal broccato? E quali?
La passamaneria di Romans d’Isonzo (?)
Come dicevo, e come è tristemente noto ai ricostruttori di epoca altomedievale, i resti di tessuti in Italia sono limitati a minuscoli lacerti in forma di pseudomorfi metallici in prossimità di fibbie, fibule e guarnizioni metalliche.
Fortuna vuole che nella necropoli di Romans d’Isonzo, uno degli pseudomorfi riguardi un caso che ci interessa.
Nella tomba 77 sono state rinvenute due fibule a staffa sul retro di una delle quali, per effetto della mineralizzazione dell’ardiglione in ferro, è rimasta traccia di un tessile riconosciuto come lavorato a tavolette eseguito con sottilissima fibra animale, quindi lana o seta. A pagina 134 del volume “Longobardi a Romans d’Isonzo” Samuel Piercy Evans afferma “La tessitura è a tavoletta, metodo assai diffuso per ottenere delle trecce che assumono forma di corde che corrono parallelamente e vengono tenute in posizione dalla trama”, accompagnando il testo con lo schema affianco.
Troppo poco purtroppo per sapere se fosse un broccato o un altro tipo di lavorazione a tavolette. Di certo non era un broccato a fili aurei, dal momento che questi non sono stati rinvenuti. Ma la donna sepolta in quella tomba indossava un indumento decorato con tavolette, fosse la bordura del tessuto o una passamaneria, le cui tracce sono rimaste sulla fibula ritrovata.
I confronti europei
Per i primi cinque secoli della nostra era i resti di tessuto noti provengono da Norvegia, Danimarca, Finlandia, Germania settentrionale e Polonia, spesso favoriti nella conservazione da contesti di ambiente paludoso. Bordure di stoffe, ma anche strisce separate, in genere in lana con motivi anche double face in giallo, rosso e marrone, vedono l’impiego di tavolette per lo più quadrate in numero assai variabile (da 6 a 178) con fili d’ordito in genere ritorti alternativamente a S e a Z . Il dato interessante è che sia le bande che le bordure solidali con la stoffa in nord-Europa sono attestate anche nel VI e VII secolo.
(C.Giostra da “I Fili aurei longobardi: la tessitura con le tavolette e la lavorazione del broccato”)
L’argomento è vastissimo e mi limiterò a degli esempi, pregando gli interessati di approfondire nei relativi riferimenti in calce.
Broccati aurei
Cominciamo dai broccati aurei che sono l’unica certezza in territorio italiano e vediamo di comprendere le eventuali corrispondenze con il resto del mondo germanico coevo.
Il tumulo sepolcrale di Taplow, in Buckinghamshire e datato alla fine del VI-inizio VII secolo, ha restituito il più grande tesoro Anglo-Sassone prima della scoperta di Sutton Hoo. Tra le varie panoplie, il vasellame, una lira, i bicchieri in vetro e i famosi corni di auroch decorati in argento, vi erano anche pregiati tessili.
A Taplow sono sopravvissuti gli unici due resti Anglosassoni contenenti fili tessili identificabili, che Grace Mary Crowfoot ha riconosciuto come una tessitura a tavolette, decorata con filo d’oro in tecnica di broccato. Nel più ampio dei tre broccati rinvenuti, i 49 fili d’ordito in finissima lana erano ritorti in fase di tessitura, prova incontestabile di una tessitura a tavolette. Il lavoro era stato eseguito con placchette a quattro fori. In altri fili aurei del sepolcro, sebbene non accompagnati da fibre tessili, la pioniera dell’archeologia tessile ha rilevato le tracce degli scomparsi fili di ordito che le hanno consentito di ricrearne lo schema.
Le sue riproduzioni sono attualmente esposte al British Museum.
Attiro la vostra attenzione sulla foto fortemente ingrandita qui sopra in cui è visibile il tipo a “lamina” dei fili aurei, come quelli longobardi.
Dai primi lavori di ricostruzione di Crowfoot, sono stati studiati i fili d’oro provenienti da oltre venti siti Anglosassoni: in Lincolnshire a Laceby e Fonaby; in East Anglia al St. John’s College (Cambridge), Hadleigh Road (Ipswich), Mitchell’s Hill (Icklingham), e Mildenhall, a Eriswell e Sutton Hoo; in Essex at Broomfield; nel Berkshire a Blewburton Hill, in Kent a Finglesham, a Coombe, a Bekesbourne, a Sibertswold Down.
Per i broccati aurei sono abbondanti gli esempi da tutta Europa. Nel lavoro di Elisabeth Crowfoot e Sonia Chadwick Hawkes, che risale agli anni ’60 dello scorso secolo, è riportata una ricca mappa dei siti noti all’epoca, in cui tali manufatti sono stati riconosciuti, anche se non tutti in condizioni tali da poter essere studiati e ricostruiti. E da allora molti se ne sono aggiunti. Per l’approfondimento della dettagliatissima analisi, sebbene datata, di questi siti vi rimando al riferimento.
Altre tecniche
Diventa ancora più interessante appurare che, per il periodo di nostro interesse, sono fortunatamente rimaste testimonianze di decorazioni che non utilizzavano fili aurei. Non meno numerose rispetto alla mole di ritrovamenti metallici, e più interessanti ai fini della ricostruzione.
Infatti, come detto, l’uso di fili d’oro era certamente riservato a figure molto in alto nelle società germaniche, come del resto già nel tardoantico romano, vedi le leggi suntuarie imperiali di V e VI secolo. Inoltre, non avendo a disposizione in Italia resti di eventuali manufatti a tavolette privi di fili metallici, ci interessa apprendere quali tecniche e caratteristiche avessero altri tipi di lavorazione della stessa epoca e della stessa area etnico-culturale.
Tecnica dei “due fori” (two hole tablet weaving)
Esempi di passamanerie dal sito danese di Broedbaek, studiati da Lise Ræder Knudsen e Ulla Mannering sono tra questi.
La datazione del ritrovamento è indicata in letteratura come Early Germanic Iron Age, sulla definizione della quale non vi è alcun dubbio, e si colloca tra il 400 e il 520/40 AD.
I resti tessili di Broedbaek sono stati ritrovati su due coppie di fermagli in bronzo e individuati come passamanerie eseguite con tavolette a 4 fori. Le tavolette utilizzate sono 48: 12 per ogni lato, con 4 fili ciascuna, lavorate in avanzamento costante, mentre la fascia centrale con le rimanenti 24 tavolette è risultata essere eseguita con una diversa tecnica. Ogni tavoletta montava solo due fili di ordito nei fori posti in diagonale e in questa fascia centrale venivano ruotati individualmente gruppi di 3 tavolette.
Il risultato è una striscia di 3,5 cm in altezza, con bordi molto solidi ai lati e una parte centrale intrecciata con effetto di rilievo. Tracce di colore hanno indicato che i bordi fossero rossi e il corpo centrale blu.
Un confronto viene dal sito coevo di Sejlflod, studiato da Lise Bender Jørgensen, dove la tecnica con tavolette montate con 4 fili sui bordi e parte centrale a 2 fili, produce un intreccio a rilievo molto simile al precedente.
Un altro ritrovamento da Timrå in Svezia, datato tra il 500 e il 550 AD, riporta la stessa tecnica con variazione sul numero di tavolette a 4 fili dei bordi e a 2 fili per la costruzione del motivo centrale.
E’ molto interessante notare che parecchi ritrovamenti scandinavi datati alla tarda epoca vichinga riportano la stessa tecnica, a circa sei secoli di distanza da quelli appena citati. Dall’isola di Gotland in particolare: a Lilla Ringome in Alva, a Nystugu in Tingstäde, a Kopparsvik – Visby. Altri reperti dello stesso tipo da Krimulda in Lettonia, anch’essi risalenti all’XI-XII secolo. |
Un esempio, molto più famoso, è una delle passamanerie conservate al Museo Alfred Bonno di Chelles, tra le decorazioni appartenute alla fondatrice del monastero, Santa Bathilde, morta nel 680 AD.
Nello stesso museo è conservata quella che decorava la tunica di Santa Bertilla, morta nel 704 AD.
I due esempi testimoniano la tecnica anche in ambito Merovingio, circa due secoli più tardi. In questo caso la tecnica a due fori è utilizzata in modo diverso e cioè non per creare intrecci in rilievo, ma per generare un effetto che viene a volte indicato come “peabble weave” cioè “a ciottoli”. Molti studiosi della materia non condividono però questa terminologia, che accomuna l’aspetto esteriore di questi manufatti a quelli di area andina, i quali, anche se apparentemente simili, sono realizzati con tecniche differenti.
Anche in questo caso ci sono confronti con ritrovamenti di altre epoche, sia antecedenti, tra cui il più famoso è quello dalla tomba del “principe-guerriero” di Hochdorf, in Germania, risalente al VI secolo a.C., che successivi, in area baltica, da cui il terzo nome con cui la tecnica viene indicata, ovvero “Baltic two-hole technique“.
Difficile dire se le tecniche siano state tramandate o “riscoperte” in più luoghi e momenti storici differenti, ma nonostante le svariate possibilità che il versatile strumento della tessitura a tavolette permette, è evidente che alcune di esse si sono riproposte nel tempo.
Nella tomba indicata come Snartemo II, a Hægebostad in Norvegia, inizio VI secolo AD, è stato ritrovato un ulteriore esempio di utilizzo della tecnica del “two hole” con un effetto estetico ancora diverso.
Un metodo a parte, tra le tecniche a due fori, è quella di introdurre in ciascuno dei fori “pieni” due fili di diverso colore, sollevando poi di volta in volta, manualmente il filo di ordito del colore che si vuol fare emergere.
Le tavolette di epoca vichinga rinvenute a Oseberg, inizio IX secolo, presentano coppie di fori negli spigoli per facilitare questa tecnica.
Esiste anche una tecnica in cui un solo foro della tavoletta non viene utilizzato (missed hole) ma finora ne ho trovati soltanto esempi più tardi rispetto al nostro periodo di riferimento.
Weft-wrapping, horsehair e soumak
Ovvero tecniche dell'”avvolgimento con la trama”, del “crine di cavallo” e del soumak.
Nel periodo delle migrazioni strettamente inteso, ovvero tra il 400 e il 700 AD, compaiono, soprattutto in area scandinava, ma come vedremo non solo, delle tecniche che utilizzano una trama aggiuntiva. Si tratta normalmente di crini di cavallo, spesso tinti, che forniscono un supporto particolarmente sottile, robusto e liscio, molto riconoscibile tra i fili della trama principale e dell’ordito, che con la loro lucentezza fanno risaltare gli elementi decorativi.
Il crine, che a volte compare anche come normale trama in altre tecniche, è utilizzato per creare schemi sulla superficie delle passamanerie attraverso l’avvolgimento di un numero di fili di ordito variabile. Il crine non passa semplicemente da un bordo all’altro della passamaneria attraverso il “passo” aperto dalla rotazione della tavoletta, come avviene nella tecnica del broccato, ma passa tutto attorno al filo dell’ordito, o a un discreto numero di fili di ordito, creando addirittura piccole fessure verticali tra un gruppo e l’altro. Ci si riferisce a questa tecnica con il termine “soumak”.
Nella sepoltura di Högom, in Norvegia, datata al 500, e in alcuni altri siti scandinavi, questa tecnica è utilizzata per creare dei riquadri le cui cornici sono intessute con il crine. All’interno dei riquadri così creati vengono realizzati gli elementi figurativi con movimenti individuali delle tavolette. In altri ritrovamenti avviene il contrario: ovvero i bordi sono costituiti da normale lavorazione in avanzamento delle tavolette, mentre il contenuto grafico è reso con il crine di cavallo. L’uomo sepolto nel tumulo principale di Högom vestiva pantaloni decorati al bordo e tunica decorata all’orlo e ai polsi, del collo non è rimasto nulla. In ciascuna di queste bordure è presente una combinazione di queste tecniche.
Gli esempi sono numerosi in Scandinavia, ne riporto un altro da Evebø, fine V secolo-inizio VI secolo, in cui è presente sia la tipologia “a riquadri” che la tessitura in continuo. Quest’ultima è la famosa passamaneria “animal frieze” in cui sono raffigurate stilizzazioni di animali, ottenute con la tecnica delle tavolette ruotate individualmente.
Un esempio di “weft-wrapping” è anche nella vitta aurea della longobarda Wisigarda, prima metà del VI secolo, rinvenuta nella sua sepoltura nel Duomo di Colonia, mentre alcuni esempi di soumak provengono dal sito anglosassone di Sutton Hoo, inizio VII secolo.
Fili flottanti (floating warps)
Genericamente si tratta di una tecnica in cui le tavolette hanno tutti i fori riempiti con i fili di ordito, tipicamente di colori diversi. Le tavolette vengono ruotate individualmente a seguire il motivo decorativo, ma in questo caso alcune di esse non vengono ruotate affatto per alcuni “turni” di lavorazione.
Il risultato è che l’ordito rimane “libero” sulla superficie per alcuni tratti.
Un famosissimo esempio è quello rinvenuto nella sepoltura indicata come Snartemo V, in cui sono tessuti complicatissimi elementi come svastiche, diagonali e altri motivi geometrici. Esistono passaggi della lavorazione anche in soumak.
La stessa lavorazione è presente in almeno altri due casi coevi e geograficamente vicini Øvre Berge e Døsen. Quella di Øvre Berge ha solo tre colori e presenta un aspetto, sul retro del lavoro, differente da quello di Snartemo.
Fuori dalla Scandinavia questa tecnica è riconoscibile in una delle decorazioni appartenute a Bathilde di Chelles, che ricordiamo è vissuta nel VII secolo morendo nel 680 AD. Per inciso Bathilde, sebbene moglie del merovingio Clodoveo II, era anglosassone di nascita. Mi sono chiesta se questa particolare fascia decorativa potesse provenire in qualche modo dalla sua patria d’origine o se Bathilde, personalmente o tramite persone del suo entourage, l’avesse importata nel regno franco o ne avesse importato la tecnica realizzativa. La domanda non è del tutto peregrina se consideriamo che il mondo anglosassone del VI secolo vanta molti elementi in comune con la cultura Vendel. La somiglianza della fascia di Bathilde con quelle scandinave, a distanza di un secolo, resterà comunque un mistero.
Del resto la stessa tecnica la ritroviamo anche in una fascia disposta a croce su un indumento rinvenuto nella chiesa di San Severino a Colonia. La datazione in questo caso è ancora più tarda, VII-inizio VIII secolo.
Conclusioni e commenti
La mia ricerca è necessariamente incompleta e ancora di più la sua esposizione. Le varianti di lavorazione e la commistione di tecniche risultano veramente in quantità sorprendenti; non ne ho citate alcune tra quelle meno rappresentate. Ho sorvolato molti dettagli tecnici su dimensioni delle bordure, numero di tavolette utilizzate, filati e colori, nonché sulla disposizione dei singoli reperti sui capi di abbigliamento, nei casi noti si collocano agli orli di tuniche, maniche, pantaloni o mantelli. Lo scopo della ricerca era infatti tentare di spiegare come potessero essere realizzate le famose bordure colorate, attraverso i confronti. Per i dettagli di ogni singolo caso e per le ipotesi di ricostruzione potrete trovare però ampissimi spunti nei riferimenti.
Gli studi inoltre sono prevalentemente concentrati nell’area scandinava e nord europea, mentre i pochi resti centro-continentali sono strettamente legati a figure canonizzate e alla loro condizione di “reliquie” dobbiamo la buona conservazione .
Ma da quel che ho potuto esporvi, sembra di poter dedurre che le tecniche di decorazione degli abiti nel periodo altomedievale, in area germanica, siano strettamente legate all’uso delle tavolette, con molte varianti, e spesso con tecniche miste di tessitura a tappezzeria.
Tornando ai nostri longobardi, niente ci vieta di ritenere che almeno uno dei metodi per decorare i famosi bordi visibili in iconografia e descritti da Paolo Diacono fosse la lavorazione a tavolette. Certamente presente per quanto riguarda i broccati aurei e quindi potenzialmente utilizzata con altre tecniche, purtroppo non direttamente pervenute.
Per quanto riguarda i motivi decorativi, abbiamo certezze “locali” esclusivamente dai decori broccati rimasti in traccia sui fili aurei. Abbiamo del resto visto, nella breve carrellata di esempi, che sia tecniche che motivi sono spesso distribuiti geograficamente e temporalmente, per cui alcuni schemi grafici, anche se geograficamente distanti, possono, secondo me, essere assunti come plausibili, purché coevi. In particolare, presenti nei broccati aurei ma anche ricorrenti in altre forme decorative dei corredi longobardi pervenutici, sono tutti i motivi geometrici a rombi o losanghe, a V, a 8, e altre combinazioni di forme base.
Sotto l’aspetto della tecnica va detto che, per l’epoca di nostro interesse, la lavorazione “piana” ovvero con tutti i fori della tavoletta orditi e lavorazione continua e complessiva, con il movimento di tutte le tavolette simultaneamente nella stessa direzione, sembra essere presente soltanto nelle bordure dei tessuti a telaio, mentre nei decori degli abiti sono utilizzate tecniche più complesse che suggeriscono, inoltre, la soggettività e creatività tipica dei lavori artigianali. In particolare, che si utilizzino tecniche “floating warps” o “two-hole” o altre, la caratteristica comune sono i movimenti individuali delle tavolette, indispensabili per comporre motivi complessi.
Tuttavia vorrei osservare che strisce eseguite separatamente con il telaio a tavolette e con la tecnica della rotazione continua con 4 fori orditi di colori distinti, sebbene non presenti nel periodo di nostro interesse, non sono necessariamente semplificazioni recenti, come qualche ricostruttore afferma, ma ne sono stati trovati, ad esempio, degli esemplari risalenti sia all’età del Bronzo che del Ferro nelle miniere di Hallstatt.
D’altro canto alcuni motivi realizzati originariamente con tecniche avanzate possono essere “visivamente simulati” con una tecnica più semplice, come nel caso dell’immagine qui sotto, pubblicata da un gruppo di rievocazione anglo-sassone riconosciuto internazionalmente tra i migliori del periodo altomedievale: i Wulfheodenas.
Si tratta di una riproduzione esclusivamente a tavolette della decorazione di abito femminile dal tumulo 14 di Sutton Hoo. Come abbiamo visto, l’originale era invece lavorato con tecnica mista tavolette e soumak. E’ chiaro che in casi del genere non si tratta altro che di “simulare” la decorazione, senza entrare nell’ambito della ricostruzione vera e propria.
La scelta della tecnica da utilizzare dovrebbe essere quindi molto oculata e in ogni caso è consigliabile la consapevolezza delle proprie scelte rispetto a ogni singolo aspetto: materiali, motivo, tecnica, dimensioni.
A proposito delle dimensioni delle passamanerie vorrei fare una puntualizzazione.
Il nostro gusto moderno ci indirizza all’apprezzamento di manufatti di ridotte dimensioni eseguiti con fili preziosi e sottilissimi. Questo rende certamente pregiato il lavoro artigianale di produzione del nastro, comportando un investimento maggiore di tempo per completarlo. Tuttavia dai reperti materiali impariamo che quando anche il filato sia sottile e pregiato, come nel caso delle passamanerie in seta, non necessariamente venisse ricercata una dimensione sottile del nastro finito. Pensiamo ad esempio alla passamaneria in seta di Bathilde. Piuttosto sono frequenti bordure molto alte che costituiscono completamente la finitura del capo e non servono soltanto a coprire le cuciture tra capo e bordura distinta. Prendiamo ad esempio quella del Mound 14 di Sutton Hoo o quelle scandinave. Anche nel caso di nastri più sottili, come quello della manica di Bertilla, esso è applicato a finitura e guarnizione del polso, senza sovrapporsi a protezione di alcuna cucitura, o addirittura le due sottili passamanerie di Bathilde sono cucite ad una più ampia tessuta a telaio.
La tendenza ricostruttiva corrente è invece quella di cucire un capo, rifinirlo con tessuto di diverso colore, e aggiungere, a copertura delle cuciture una passamaneria il più fine possibile. Qualcosa di simile, se vogliamo, ai resti della tunica copta che ha attirato la mia attenzione.
Questo è solo uno spunto di riflessione ovviamente, ma la mia convinzione è sempre più orientata all’idea che non stiamo applicando correttamente le indicazioni dateci da Paolo Diacono e dai reperti.
Pettine liccio?
Per completezza devo aggiungere di aver recentemente visionato la registrazione video di un seminario, tenuto da ricostruttori in una sede prestigiosa, in cui si asserisce che l’uso del pettine liccio sia più consono al periodo longobardo, mentre le tavolette siano sostanzialmente da evitare. Aggiungo questo commento perché si leggono spesso sui social affermazioni del genere e questa particolare conferenza, considerato il tono delle affermazioni e il riconoscimento che viene dato al gruppo rievocativo in questione in sede accademica, ma non in presenza di archeologi tessili, sembra voler assegnare una risposta definitiva alla questione, rappresentando una sorta di “voce ufficiale” sull’argomento.
Per quanto visto finora mi sento di affermare l’esatto contrario: non vedo assolutamente il motivo per evitare l’uso di tavolette, sebbene con tutte le cautele su schemi grafici e tecniche di cui sopra.
Pur rendendomi conto che la tecnica a pettine liccio sia la più semplice da imparare per i rievocatori, l’affermazione non convince affatto, perché non sono personalmente al corrente di ritrovamenti di pettine liccio del periodo, e nella letteratura consultata, a fronte di moltissimi esempi di tessuti a tavolette, non ho incontrato nessuna menzione di guarnizioni eseguite con questa tecnica.
Per il periodo medievale le più antiche che ho trovato risalgono al X secolo islandese, decisamente fuori obiettivo per i nostri scopi in quanto apertamente vichinghe, molto simili però a quelle utilizzate dai ricostruttori che nel video citato ne affermano l’utilizzo filologicamente corretto.
Per inciso le due modalità, tavolette e liccio, sono facilmente distinguibili, poiché la lavorazione a tavolette produce una torsione dei fili d’ordito che il pettine liccio non produce affatto, trattandosi sostanzialmente di una lavorazione piana in cui il passo per la trama è aperto dal movimento esclusivamente verticale del pettine. Riporto quanto scritto da Caterina Giostra nel lavoro citato “La caratteristica più evidente della tessitura con le tavolette, come si è detto, è che le corde ritorte che essa produce – e che nascondono al loro interno i fili di trama a esse trasversali – creano un ‘effetto ordito’”.
La differenza appare ad occhio nudo anche a non esperti del settore.
Forse la passamaneria nell’esempio di tunica copta riportato sopra in foto potrebbe essere realizzato con il pettine liccio, ma come già detto, la foto non è abbastanza chiara a mio avviso per darne certezza. In ogni caso si tratterebbe di un esempio di area copta non supportato da nessun altro caso europeo nei secoli V-VIII. Pertanto, ad oggi, eviterei questo tipo di tecnica non potendola sostenere con elementi certi, come invece nel caso della tessitura a tavolette.
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