Nel precedente articolo abbiamo riepilogato la crescente influenza politica e militare dei barbari all’interno dell’impero d’Occidente fino alla sua conclamata fine e all’avvento del Regno d’Italia con Odoacre. Abbiamo anche visto come l’imperatore d’Oriente, secondo un vecchio schema, pensò di sbarazzarsi di un barbaro, Odoacre, mandandogli contro un altro barbaro, Teoderico. Vorrei continuare raccontando un po’ di questo regno gotico iniziato nel 496 e conclusosi al termine della cosiddetta seconda Guerra Gotica, nel 553. Anche in questo caso, più che le vicende strettamente politiche e militari, rinvenibili in ben più autorevoli testi, mi piace considerare le tracce lasciate nel territorio e nella cultura, ma anche nella percezione popolare. Occorre però fare una breve premessa per spiegare chi fossero questi Goti condotti da Teoderico sul suolo italico.
I Goti: identità della gens
In un barbaricum, contraddistinto da un continuo stato di guerra, continuò per secoli a migrare una gens formata da Germani “orientali”, da nuclei di Sarmati e Taifali, da Balti e da Finni, da Slavi, Daci e da Carpi, da minoranze microasiatiche e da Romani dei ceti inferiori.
Questa gens, lungi dal costituire un’identità compiuta e, ancor meno, una comunità di origine biologica, passò attraverso diverse etnogenesi:
- la prima ebbe luogo, verosimilmente, nella mitica Gothiscandza sul Baltico quando diverse ondate di Gauthi scandinavi si insediarono, fondendosi con i Balti e con i Celti, nella regione tra l’Oder e la Vistola;
- la seconda corrispose ad una vera e propria “scitizzazione” (ovvero a un’assimilazione alle tribù nomadi degli Sciti-Sarmati) di una gens dominata ormai dalla stirpe degli Amali, una schiatta regale generata dal nume scandinavo Gaut (assimilabile a Godan – Odino) e fornita del carisma degli Asi divini;
- la terza coincise con la separazione della gens in Greutungi amalici e in Tervingi (o Vesi) governati da vari aristocratici;
- la quarta fu, per così dire, una conseguenza del dominio unno su una parte della gens, costituita perlopiù da Greutungi, e della migrazione dell’altra parte, costituita perlopiù da Tervingi, attraverso i territori romani, fino alla Gallia.
Questa gens barbarica, che rappresentava una comunità molto più simile a un “esercito mobile” che a un popolo, era la gens dei Goti, un’eterogenea confederazione tribale che, a un certo punto della sua storia, diede vita agli Ostrogoti (i Goti unnici, rimasti ad Oriente) e ai Goti Vesi, i Visigoti (i Goti non unnici, migrati attraverso l’Occidente romano).
La fama di cui ancor oggi è ammantato il suo ricordo deriva dal fatto che la gens Gothorum agì da protagonista in quell’epoca che segnò la trasformazione, non certo la distruzione, dell’Impero Romano: già i Romani del V secolo riconoscevano, infatti, nel disastro inferto loro dai Goti ad Adrianopoli (378) una fase cruciale della loro storia, è indubbio che Adrianopoli e l’insediamento nel territorio romano dei foederati Visigoti aprirono la nuova era romano-barbarica.
I Goti non erano quindi, per così dire, dei barbari qualunque e il loro primato nel mondo germanico appare incomprensibile se non si spiega ciò che, al tempo stesso, si configura come una loro peculiarità e come un loro punto di forza: dapprima, il forte accentramento dei poteri su tutta la gens nelle mani degli Amali ; in seguito, il loro predominio politico-religioso-militare sugli Ostrogoti e il loro prestigio politico-sacrale tra i Visigoti. Va tenuto conto, che, ai tempi delle origini, gli Amali in virtù della loro discendenza divina fungevano da tramite tra dèi e umani rivestivano il ruolo importantissimo, in una nazione sottoposta a continue etnogenesi, di depositari delle tradizioni degli avi, ed esercitarono, in forme sconosciute presso gli altri Germani, il comando assoluto della gens ovvero dell’exercitus dei Goti.
Furono dunque i membri di questa stirpe regale a rappresentare il nucleo “costituzionale” intorno al quale quest’eterogenea comunità di armati trovò la sua coesione; fu attraverso l’accettazione delle tradizioni di questa dinastia, e attraverso il riconoscimento della sua superiorità, che un esercito multietnico in perenne movimento, esposto agli influssi più disparati e soggetto a ininterrotte metamorfosi, continuò a chiamarsi sempre gens Gothorum. Alla stirpe Amala apparteneva anche Teoderico.
Teoderico a Verona e Ravenna
Quando come abbiamo visto questa eterogenea entità ne ebbe occasione, ebbe inizio il regno di Teoderico in Italia, che durò quasi trent’anni, un periodo eccezionalmente lungo rispetto alla turbolenza degli ultimi decenni dell’impero. La stabilità del governo e l’abilità con cui Teoderico regnò assicurarono una vera e propria rinascita di un territorio che era andato impoverendo e decadendo. La capitale fu stabilita a Ravenna, in continuità con Impero e regno di Odoacre. La città di Verona fu però sempre molto amata dal re germanico che vi risiedette a lungo anche per la facilità di spostamento, in particolare verso nord, attraverso la Valdadige.
Anche Verona quindi beneficiò della sopraggiunta pace e stabilità e venne restaurata e rinnovata, ritrovando un po’ dell’antico splendore imperiale. Furono ricostruite e ampliate le mura cittadine che erano rimaste pressoché inservibili dal tempo dell’assedio di Costantino a Massenzio nel 312.
Le nuove mura di Teoderico ora inglobavano l’Arco dei Gavi che venne di fatto utilizzato come porta cittadina e l’Arena, chiudendo l’ansa dell’Adige più a sud delle vecchie mura di Gallieno del periodo imperiale romano.
A nord le mura inglobarono un’ampia zona collinare che divenne l’insediamento dei goti e in seguito dei longobardi, mantenendo il ruolo di cittadella militare fino al XIX secolo. Di ciò rimane traccia nella toponomastica cittadina, nel quartiere di San Giovanni in Valle: toponimo derivato da Vallum Gothorum.
Proprio l’austera chiesa di San Giovanni in Valle, ancora oggi ammirabile in tutta la sua arcaica semplicità, fu la chiesa ariana eretta dai conquistatori in contrapposizione alla vicina Chiesa cattolica di Santo Stefano.
Il tracciato della cinta muraria stabilita da Teoderico rimase pressoché immutato fino al 1300 e ancora oggi, per quanto ricostruito in materiali diversi nel corso dei secoli, può essere ammirato di fronte all’Arena.
Sempre chiuso dal ramo nord delle mura doveva esservi anche il leggendario Castello di Teoderico, raffigurato sul sigillo di Verona e citato nella celebre poesia del Carducci: “Sul castello di Verona batte il sole a mezzogiorno…“. Il castello, secondo alcuni recenti studi e ricerche, doveva sorgere sul lato est del Teatro Romano, a mezza costa del colle poi denominato di San Pietro. Stando al sigillo che lo rappresenta aveva la classica fattezza degli edifici bizantini che tanto dovevano essere cari a Teoderico, allevato alla corte bizantina. Il corpo centrale dell’edificio era poi affiancato da due torri lunghe e sottili, simili a minareti. Purtroppo la notevole attività edilizia che caratterizzò tutta l’area nel corso dei secoli, ha cancellato quasi ogni traccia del palazzo teodoriciano, ma curiosamente sulla collina esiste da decenni un ristorante intitolato a Re Teoderico e nonostante il cosiddetto castello attuale sia denominato San Pietro, molti vecchi veronesi si riferiscono all’altura ancora come al “castello di Teoderico”. Oltre alle mura, Teoderico restaurò numerosi altri edifici a Verona tra cui l’acquedotto e le terme, e favorì la cultura e le arti.
Fondò anche, su quella che allora era la via Gallica, il sacello per conservare le spoglie di San Zeno, successivamente ricostruito nel IX secolo e rimaneggiato fino al XII. E’ curioso osservare che gli altorilievi della facciata, sebbene risalenti al XII raffigurano Teoderico ben due volte: nel duello contro Odoacre e nella scena della caccia infernale che rievoca la leggenda della sua morte. Tanto fu l’amore per Verona che in Germania venne indicato come Dietrich von Bern, in antico tedesco “Teoderico di Verona”. La capitale Ravenna non fu certo meno valorizzata. Basti pensare alla costruzione di Sant’Apollinare Nuovo in un mosaico del quale è raffigurato anche il palazzo ravennate di Teoderico.
Rimane a Ravenna anche lo straordinario Mausoleo che Teoderico si fece erigere in blocchi di pietra d’Istria, con struttura possente. Il monumento, protetto dall’UNESCO all’interno del sito seriale “Monumenti paleocristiani di Ravenna“, possiede una peculiare architettura, la cui caratteristica più sorprendente è costituita dalla copertura formata da un enorme unico monolite a forma di calotta, in pietra d’Istria di 470 tonnellate e di 11 metri di diametro. La fascia decorativa con un motivo “a tenaglia”, una decorazione desunta dall’oreficeria gota.
Gli ultimi anni di vita di Teoderico furono caratterizzati da un progressivo indurimento delle posizioni del sovrano, che in gioventù aveva sempre cercato l’equilibrio e l’armonia mediando i contrasti tra goti e popolazione latina, chiesa e impero. In particolare, sempre più sospettoso e temendo complotti degli amministratori e consiglieri latini ai quali si era sempre affidato con fiducia, arrivò a condannare a morte il senatore Albino e il fido maestro di palazzo Severino Boezio, che durante la sua prigionia a Pavia, dal 523 al 525, compose il suo “De consolatione Philosophiae”.
La catena di sospetti, incarcerazioni e vendette politiche si inasprì ulteriormente quando Costantinopoli decise una stretta contro l’eresia ariana predominante tra i goti. Teoderico arrivò persino a far rinchiudere e morire in carcere a Ravenna papa Giovanni I colpevole di non essere riuscito a ottenere la libertà di culto per i goti ariani. I bizantini stancatisi anche del governo di Teoderico stavano per intervenire nuovamente come era accaduto per Odoacre. Teoderico scomparve nel 526 all’età di 70 anni, proprio mentre si stava preparando allo scontro con Costantinopoli. La fine di Teoderico è avvolta dal mistero e numerose sono le leggende sorte riguardo la sua scomparsa. La più celebre è quella che racconta come Teoderico, al bagno nell’Adige proprio a Verona, per inseguire, lui grande cacciatore, un meraviglioso cervo che gli si era presentato davanti, salì in groppa a un misterioso destriero apparso all’improvviso. Il nero cavallo era in realtà un essere demoniaco che al termine di un’allucinata corsa lungo la penisola italiana precipita il vecchio re nel vulcano Stromboli, ingresso dell’inferno. La leggenda è magnificamente ritratta in un bassorilievo della facciata della basilica di San Zeno, che sicuramente ispirò la poesia del Carducci.
Dopo una piuttosto rapida successione di re Ostrogoti arrivò il momento in cui l’imperatore Giustiniano stabilì di ripristinare l’impero d’Occidente al suo originale aspetto politico. Tra le campagne militari che questo progetto comportò ci fu anche la cosiddetta Guerra Gotica con l’obiettivo di abbattere il potere ostrogoto in Italia, ne furono protagonisti Belisario e Narsete per i Bizantini, Teodato, Vitige e Totila per gli Ostrogoti. Fu un conflitto durato diciotto anni, dal 535 al al 553, e vide alterne vicende fino alla sconfitta definitiva dei Goti, che da Teoderico in poi, avevano popolato e governato la nostra penisola per circa settanta anni. Oltre a Ravenna e Verona, in altre zone dell’Italia rimangono ulteriori tracce del periodo gotico, per esempio in una serie di fortilizi lungo il cosiddetto Tractus Italiae circa Alpes, l’arco difensivo approntato in area prealpina in epoca romana per contenere le invasioni dei Barbari, riutilizzato e rafforzato da Goti prima e Longobardi in seguito.
In particolare nel Parco Archeologico di Monte Barro, è ancora visibile l’insediamento di età gota (V-VI sec. d.C.) e non rielaborato in seguito, poiché dagli stessi Goti incendiato e abbandonato verso il 540 dopo Cristo.
Ma esistono anche preziose testimonianze del periodo gotico dell’Italia sparse per il territorio in tombe e tesoretti sepolti. Il corredo funerario, particolarmente nelle sepolture maschili, è estremamente ridotto. L’editto di Teoderico, imponeva che, per non depauperare l’erario statale, non si dovesse seppellire con un corredo composto da armi e gioielli; nelle sepolture maschili si può trovare qualche fibbia, che però non è sufficiente per dare una datazione. Le sepolture maschili quindi risultano mal databili rispetto a quelle femminili, probabilmente perché per le donne non veniva rispettato l’editto di Teoderico.
Il Tesoro di Desana
Un ritrovamento i cui oggetti risalgono certamente al IV – V secolo di origine sia tardo-romana che gota. Desana si trova a circa 8 chilometri da Vercelli, cioè 5 miglia romane: era infatti una mansio, e qui si insediò la famiglia di un Decio. Ovvero Decius, da cui ‘fundus Decianus’. Nei documenti medievali appare per la prima volta il nome di Deciana, usato sia per la ‘villa’ che per il ‘castro’, cioè per il borgo ed il castello. Deciana, dunque, poi Desana. Pare che gli Ostrogoti si insediarono per qualche periodo a Desana e vi lasciarono, forse perché in fuga, un loro tesoro. Si tratta di 44 pezzi in oro e argento, ritrovati dall’archeologo Vittorio Viale in circostanze confuse. Il Tesoro di Desana contiene esempi di oreficeria ostrogota di estrema bellezza e ora è custodito a Palazzo Madama a Torino. Composto di oggetti di varia origine e fattura è però discusso per il mistero che riguarda il suo ritrovamento e per le ipotesi sulle cause della sua sepoltura. Tuttavia è una magnifica evidenza delle capacità artigianali e delle influenze barbariche del periodo.
Il Tesoro di Domagnano
Il tesoro di Domagnano costituisce uno dei più spettacolari e importanti ritrovamenti dell’Italia gota, ma anche uno dei più misteriosi.
Fu scoperto per caso nel 1893 nel corso di lavori agricoli nei pressi della fattoria Lagucci, nel comune di Domagnano (Repubblica di San Marino), ma le circostanze del ritrovamento non vennero mai completamente chiarite. Da frammentarie e lacunose informazioni si è venuto a sapere che quelle importanti scoperte sono state effettuate in vari periodi e sono state fatte casualmente. Una da un garzone agricolo sedicenne, un’altra da una giovanissima pastorella, altre da alcuni contadini mentre stavano lavorando il terreno per l’impianto di un vigneto e altre ancora si sono tramandate oralmente talvolta arricchite da molte fantasticherie. Si ignora se altri reperti, quali ad esempio monete, siano andati smarriti, o se insieme agli oggetti d’oro siano stati rinvenuti ossa o elementi di metallo vile. Non si sa, infine, come tale tesoro sia finito a Domagnano. Perché sepolto assieme alla padrona oppure perché nascosto dalla padrona o da un ladro o da un soldato, senza aver avuto la possibilità di recuperarlo. Oppure perché perduto durante un trasferimento. Attualmente ne rimangono 22 pezzi, fra oreficeria e suppellettili in oro. L’importanza del ritrovamento venne oscurata dalla segretezza con cui il tesoro venne prima venduto e poi disperso da antiquari che ne tennero ben nascosta la reale provenienza.
Per molto tempo si disse che il tesoro proveniva da Cesena, in provincia di Forlì, dove intorno alla metà del VI secolo si combatté una battaglia nel corso della riconquista bizantina dell’Italia, ma ottant’anni dopo la sua scoperta, nel 1973, la pubblicazione esemplare di Volker Bierbrauer riuniva tutti i pezzi ricostruendone la vera storia. Nonostante tutti gli interrogativi, si ritiene generalmente che a Domagnano fu scoperta la tomba di un’aristocratica dama ostrogota, una “tomba principesca”, di cui si conservano tutti, o quasi tutti, gli oggetti di corredo e che il tesoro sia databile intorno al V o all’inizio del VI secolo d.C. Fra tutte le tombe femminili ostrogotiche rinvenute in Italia, quella di Domagnano è qualitativamente e quantitativamente fra le più ricche. Il tesoro è composto da due serie di oggetti: gli oggetti d’ornamento e gli accessori. Tutti i pezzi sono in oro, di una purezza oscillante dal novantuno al novantotto per cento, con variazioni fra le diverse componenti di alcuni singoli elementi.
Il tesoro è costituito da 2 fibule ad aquila in oro ad alveoli con granati almandini ed altri inserti, 2 orecchini d’oro con pendenti, ad alveoli con granati almandini, 9 pendenti di collana in oro con alveoli, 1 spillone per capelli in oro, 1 anello digitale in oro con granato piramidale, 3 montature in oro riferite a una borsa da cintura, 2 puntali in oro per fodere di coltellini, 1 fibula a forma di insetto alato. Attualmente al Museo di Stato della Repubblica di San Marino è conservata solo una borchia piccola in oro con lavorazione cloisonnè.
L’insediamento romano di Domagnano – Paradiso fu radicalmente ristrutturato in età gota (fine V – prima metà VI secolo d.C.).
L’edificio di età gota occupava solo il settore sud-orientale del precedente insediamento di età romana ed era articolato in due file di ambienti, con pavimentazioni in terra battuta e focolari utilizzati per riscaldare e cucinare. Alcuni ambienti vennero sottoscavati e sono quindi incassati nel terreno; tale caratteristica ha preservato dalle arature i livelli di utilizzo ed abbandono dell’insediamento.
Dagli ambienti provengono 14 monete tardoantiche, tra le quali due di emissione ostrogota: un quarto di siliqua di Teoderico a nome dell’Imperatore Giustino (518-526) e un quarto di follis del tipo Felix Ravenna (513-534).
A monte dell’edificio si apriva un vasto cortile, dove era attiva anche una piccola fornace. Erano inoltre utilizzate alcune strutture precedenti (vasche, cisterna, pozzi). Il paesaggio era sempre caratterizzato da coltivazioni di cereali, viti e olivi. Venivano allevati suini, bovini come forza lavoro ed ovini.L’insediamento di Domagnano -Paradiso risulta abbandonato intorno alla metà del VI secolo d.C., in corrispondenza delle guerre gotiche (535-553), periodo nel quale era presente sul crinale del Monte Titano un insediamento, probabilmente con scopi militari.
Necropoli di Collegno
A Collegno, in provincia di Torino, gli scavi per il comprensorio tecnico della metropolitana e quelli per l’ampliamento del cimitero hanno portato in luce una necropoli gota, una longobarda e resti delle complesse trasformazioni del villaggio di capanne dell’alto medioevo. L’area occupa l’ampio terrazzo fluviale di un’ansa della Dora, dove le prime tracce di insediamento consistono in due isolate tombe dell’età del Bronzo. In età romana la località doveva trovarsi nei pressi di un ponte o un guado sulla Dora, lungo uno dei percorsi collegati alla grande arteria stradale che da Augusta Taurinorum conduceva ai valichi alpini. A meno di un chilometro di distanza, al quinto miglio dalla città, sorse nel V secolo la basilica paleocristiana di S. Massimo ad quintum, preceduta da importanti strutture di età imperiale, interpretate come stazione o ricca villa. Il toponimo dell’attuale strada “della Varda” che attraversa il sito, può essere di origine germanica (Wart = guardia, luogo di osservazione, di guardia) in rapporto alla funzione di presidio territoriale svolta dall’insediamento prima goto, e poi longobardo, che venne a insediarsi in questo luogo tra VI e VII secolo. La via della Varda nel medioevo non è che il tratto collegnese della «via Pellegrina» o «Pellerina» che, uscendo da Torino, percorreva la riva destra della Dora e conduceva al ponte, citato nei documenti a partire dal 1210.
Dopo un lungo periodo seguito alla deposizione delle tombe dell’età del Bronzo, le prime attività di rioccupazione di queste terre consistono nello scavo di un canale e nella costruzione di modesti edifici rurali con zoccolo in muratura di ciottoli e argilla e struttura portante in legno, databili al V secolo d.C. Poco dopo, tra la fine del V secolo e il 560 circa vi si insedia una famiglia aristocratica gota di cui si è scoperta e indagata la piccola necropoli, situata a poche decine di metri dalle abitazioni. Intorno a una tomba monumentale, allestita per il capo del gruppo, si disponevano due sepolture maschili, due infantili e tre femminili, di cui due con ricchi gioielli e vesti decorate con broccato d’oro.
Il personaggio della tomba principale era un uomo di oltre 50 anni, deposto senza armi e con due cinture chiuse da fibbie in bronzo dorato e in ferro. La deformazione cranica artificiale evidenziata in questo individuo e in uno dei bambini, ottenuta con bendaggi applicati fin dall’età neonatale, è frutto di una pratica del tutto estranea in Italia e invece diffusa nell’Europa centro-orientale tra V e VI secolo. Le analisi antropologiche hanno inoltre rilevato nell’individuo adulto la cosiddetta “sindrome del cavaliere”, dovuta a un costante e intenso addestramento equestre, esercitato dalla nobiltà gota come abilità guerriera specifica del proprio rango sociale.
Sono molte altre le sepolture singole e di gruppo sparse nella penisola italiana, che ci raccontano qualcosa del nostro passato gotico.
Altri esempi con correlazioni e immagini nel pdf allegato e tratto dal sito Paleopatologia.it
Bibliografia:
- ARCHEOLOGIA E STORIA DELLE MIGRAZIONI EUROPA, ITALIA, MEDITERRANEO FRA TARDA ETÀ ROMANA E ALTO MEDIOEVO – Atti del Convegno internazionale di studi Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 17-18 giugno 2010, curatori Carlo Ebanista e Marcello Rotili
- Historia Gothorum, Cassiodoro
- De bello Gothico, Procopio di Cesarea
- De origine actibusque Getarum , Jordane
- Longobardi nella Lombardia Settentrionale (secc.VI-XIII) – Atti Convegno “Il Seprio nel Medioevo” – Morazzone – aprile 2010, curatrice Elena Percivaldi
- Die Ostgotischen Grab-und Schatzfunde in Italien, Bierbrauer Volker, Fondazione CISAM
- Domagnano. Dal tesoro alla storia di una comunità in età romana e gota, cura di G. Bottazzi, P. Bigi, San Marino, 2001
Pingback:Merovingi: la dinastia sacra dei "re fannulloni" - da Clodoveo a Clotario |