Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, Altezza Imperiale, conte Palatino del Sacro Romano Impero, Esarca di Ravenna, Duca di Macedonia e di Illiria, Principe di Costantinopoli, di Cilicia, di Tessaglia, di Ponto, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo.
Stiamo parlando di Totò, “il Principe della risata” che a quanto pare non smise mai di ricercare, a costo di battaglie giuridiche infinite, una vera nobiltà.
Premesso che il nostro è un ricordo e un omaggio al grandissimo comico posto con affetto e riconoscenza nell’anniversario della sua nascita, 15 febbraio 1898, vogliamo raccontarvi retroscena che forse nemmeno i suoi più grandi fan conoscono. Gli oscuri e poveri natali diedero a Totò una grande forza d’animo e un grande spirito, che associati al “mestiere” da consumato e grande rappresentante della “Commedia dell’arte” crearono un mito del cinema e del teatro italiano.
Gli stessi oscuri natali accesero però in lui, a quanto pare, un desiderio di rivincita sociale che non si estinse mai e probabilmente un desiderio di eternità che il suo mestiere di attore non credeva fosse destinato a garantirgli. Sono frequenti infatti le sue affermazioni sulla fugacità della fama da attore:
« Io non sono un artista, ma solo un venditore di chiacchiere, come Petrolini che, infatti, è stato dimenticato. Un falegname vale più di noi due messi assieme, perché almeno fabbrica un armadio, una sedia che rimangono. Noi, al massimo, quando ci va bene, duriamo una generazione. Lo scritto rimane, un quadro rimane, anche un lavandino rimane. Ma le chiacchiere degli attori passano. »
“Oriana Fallaci e Totò, il principe metafisico”, intervista su L’europeo, 1963 e in ” Totò. Siamo uomini o caporali? Diario semiserio di Antonio de Curtis”, Liliana De Curtis, Newton & Compton (collana “I nuovi best seller Newton”), 1996
Il “Caso De Curtis” è stato presentato al II° Colloquio Internazionale di Genealogia di San Marino tenutosi tra il 31 marzo e il 4 aprile del 2005; nella giornata del 2 aprile si relazionò su Le falsificazioni genealogiche e la pretesa dinastica di Totò fu esposta tra queste.
Discussioni sull’argomento sono presenti nel forum “I Nostri Avi. Forum Italiano della Commissione Internazionale permanente per lo Studio degli Ordini Cavallereschi, dell’Istituto Araldico Genealogico Italiano e dell’Associazione d Hidalgos – Junta de Italia“. La discussione ha oggetto: “Storia di Famiglia e Genealogia. De Curtis (Totò)” ed è iniziata il 14 maggio 2004.
La relazione riportata su un sito dedicato al grande artista, vede l’autore stesso, Giovanni Grimaldi, quasi scusarsi di aver eseguito le sue ricerche, non volendo apparire un detrattore dell’amato Totò. Noi condividiamo questo scrupolo ma siamo convinti che la nobiltà di Totò non dovesse necessariamente risiedere nei titoli e nell’araldica, e riteniamo di rendere più giustizia alla sua umanità raccontandolo da questa prospettiva.
La pretesa dinastica
Nel Cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli, sulla tomba di Totò, l’incisione recita S(ua) A(ltezza) I(mperiale) Antonio Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis Principe Imperiale di Bisanzio
Infatti il 18 luglio 1945 e il 7 agosto 1946 il Tribunale di Napoli, IV sez., emanò sentenze che gli riconobbero diversi titoli gentilizi, registrati a pag. 42 vol. 28 del Libro d’Oro della Nobiltà Italiana, tenuto presso l’archivio della Consulta Araldica (Roma, Archivio Centrale dello Stato): Principe, Conte Palatino, Nobile, trattamento di Altezza Imperiale.
Con sentenza 1º marzo 1950 del Tribunale civile di Napoli, anche il cognome De Curtis venne rettificato in “Focas Flavio Angelo Ducas Comneno De Curtis di Bisanzio”
Le battaglie per questi riconoscimenti ufficiali iniziarono nel 1933, quando Antonio de Curtis, in arte Totò, sostenuto dai suoi avvocati e dall’esperto araldico Conte Luciano Pelliccioni di Poli, iniziò a rivendicare la propria appartenenza a un ramo decaduto dei nobili de Curtis, quello dei conti di Ferrazzano. Durarono quindi quasi 20 anni le cause di riconoscimento e tale fu la soddisfazione per la vittoria che subito dopo , nel 1951, Totò si fece erigere la cappella gentilizia in cui riposa con l’evidenza di tutti i titoli e lo stemma araldico e più tardi, nel 1962, fece coniare monete d’oro del peso di 50 grammi che lo raffiguravano come un imperatore, di profilo. Regalava queste monete agli amici più cari.
Cosa fece ritenere a Totò di poter accampare questi diritti e perché dovette lottare così a lungo per vederseli riconoscere?
Note biografiche
Totò nacque a Napoli, nel quartiere Stella, per la precisione nel rione “Sanità”, in via Santa Maria Antesaecula al secondo piano del civico 107, da una relazione clandestina di Anna Clemente con Giuseppe De Curtis che, in principio non lo riconobbe. Fu quindi registrato all’Anagrafe di Stato Civile come Antonio Vincenzo Stefano Clemente, figlio di Anna Clemente, nubile, e di N.N.
La sua condizione di figlio illegittimo associata alla povertà segnò l’infanzia e il carattere del piccolo Antonio, a cui la madre diede subito il nomignolo di Totò.
Sulla condizione sociale del padre si apre la prima questione, origine forse della smania di nobiltà che durò una vita.
Appare in molte biografie, e fu in parte alla base delle rivendicazioni successive, il fatto che il padre non sposò la madre a causa della sua nobiltà e del ceto inferiore di lei. A opporsi al matrimonio, come nei romanzi di appendice, sarebbe stato il padre di Giuseppe De Curtis, marchese Luigi De Curtis. In famiglia si parlava di questa nobiltà e del fatto che la sedicenne Anna fosse “costretta” alla sua condizione di amante dalla disparità sociale. Sicuramente fu con queste certezze che il giovane Totò crebbe e di cui fu convinto, tanto che le stesse biografie e racconti della figlia Liliana riportano questa versione.
Il nonno Marchese
Il mitico nonno marchese Luigi De Curtis, figlio di Lorenzo De Curtis e Vincenza Abramo, come appare anche dal suo atto di morte (Napoli, quartiere S. Lorenzo, 20 febbraio 1926), faceva il “pittore” (o forse l’imbianchino, poiché anche con questa accezione viene usato il termine a Napoli), mentre il figlio Giuseppe era titolare di una sartoria ambulante, ovvero senza sede fissa, che offriva i suoi servigi a domicilio dei clienti.
Giuseppe sposò Anna il 24 dicembre 1921, secondo la versione più nota “dopo la morte del padre”, che fungeva da ostacolo alle nozze. Tuttavia, dagli atti dello Stato civile di Napoli, Luigi risulterebbe deceduto 5 anni dopo il matrimonio, il che fa supporre un racconto costruito attorno a ben diverse motivazioni.
Riconoscimento
Con le nozze della madre e del padre non arrivano però per Totò anche il riconoscimento e la legittimazione che avrebbero fatto dell’ex Antonio Clemente figlio di N.N. il signor Antonio De Curtis.
Dopo aver abbandonato gli studi senza completare il ginnasio e aver iniziato una precaria carriera teatrale, dopo essersi arruolato diciassettenne durante la Grande Guerra e, alla sua fine, aver rifiutato di entrare in marina, non ha ancora trovato la sua strada.
La famiglia si trasferisce a Roma dove Totò lentamente riesce a farsi notare dapprima nel Teatro Ambra Jovinelli e in seguito, con maggior fortuna, nel Teatro Sala Umberto I , in seguito si esibisce in numerosi caffè-concerto in tutta Italia ottenendo fama nazionale.
Nel 1928 arriva finalmente il riconoscimento da parte del padre.
Resta piuttosto inspiegabile il motivo per cui dopo un tardivo matrimonio vi fu un ancora più tardivo riconoscimento del figlio. Ennio Bispuri nel suo “Vita di Totò” suggerisce che Giuseppe De Curtis non fosse del tutto convinto della propria paternità, il che, secondo l’autore, darebbe maggior senso alla strenua opposizione del nonno Luigi al matrimonio e che, forse addirittura, Giuseppe potesse essere sterile, dato che dalla lunga unione non nacquero altri figli. Nel frattempo però il giovane Totò, ormai alla soglia dei 30 anni, è concentrato sulla propria carriera teatrale che finalmente gli concede delle soddisfazioni. Nel 1929 viene scritturato come capocomico e vedette dal Teatro Nuovo di Napoli per un rientro trionfale nella sua città. Incontra qui la bellissima femme fatale Liliana Castagnola, con cui ebbe una breve e intensa relazione a conclusione drammatica. Nel 1931 conosce la sedicenne Diana Bandini da cui ha una figlia nel 1933: Liliana, in onore della donna che per il suo abbandono si era suicidata. Nel 1935 Totò e Diana si sposano.
L’ossessione araldica
Nell’arco di questi anni la vita di Totò, sebbene tra alti e bassi e segnata da un evento drammatico, sembra essersi delineata verso il successo e l’equilibrio. La giovanissima compagna gli ha dato una figlia, il padre, sebbene mantenendosi sempre in rapporti distaccati, ha sposato la madre e lo ha riconosciuto, cancellando l’allora infamante marchio di “figlio di N.N.”, il successo di pubblico e di critica gli portano anche una discreta agiatezza: si consideri che in un’epoca in cui si cantava “Se potessi avere mille lire al mese” il nostro Totò ne guadagnava mille a rappresentazione.
Tuttavia è proprio nel 1933 che si accende la ricerca spasmodica della propria ascendenza, una maniacale ossessione che coprirà buona parte della sua vita. Qualcuno ipotizza che sia stata proprio la nascita della figlia a ravvivare nell’artista il desiderio di conoscere la propria storia, i propri avi e di poterle lasciare in eredità qualcosa “di importante”.
L’adozione
Il primo evento inspiegabile a questo riguardo è l’insistente sollecitazione con cui Totò propose e ottenne di essere adottato dallo squattrinato marchese Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, cavaliere del Sacro Romano Impero (D. M. di riconoscimento 6 maggio 1941), in cambio di un vitalizio. Lo scambio consentì al marchese di affrontare con serenità la vecchiaia potendo contare sul gruzzolo versatogli dall’artista, ma il riconoscimento da parte del padre era già avvenuto, perché Totò si volse a questa decisione se davvero credeva al racconto familiare del padre marchese?
Forse all’epoca si era già manifestato chiaro che il padre naturale Giuseppe non potesse fregiarsi di alcun titolo? Le sue modeste possibilità economiche non dimostravano nulla, lo stesso padre adottivo non versava in condizioni molto migliori, e qualche ricerca dinastica avrebbe potuto accertarlo. Forse il padre naturale non desiderava assecondare l’ossessione che animava Totò per la ricerca dei suoi avi? Non lo sappiamo e non fu spiegato.
Il 26 luglio 1933 il Tribunale di Napoli ratifica l’adozione: di fatto Totò aveva due padri, di cui quello adottivo certamente nobile e l’altro ritenuto tale.
La ricerca
Il già citato Ennio Bispuri racconta nella sua biografia di Totò che in questa fase egli trovava il tempo di vistare i cimiteri di ogni città in cui gli capitasse di lavorare con la sua compagnia, alla ricerca di tombe recanti il suo cognome. In particolare a Torino riuscì a individuare la tomba di un suo omonimo Antonio De Curtis che addobbò con lumini e fiori e davanti alla quale trascinò in un impeto euforico tutti gli attori della compagnia, in presenza dei quali si commosse e pianse come si trattasse di un vero parente defunto.
In questo stato mentale ed emotivo prendono il via ricerche più mirate.
Rivolgendosi ad araldisti e genealogisti professionisti commissionò studi e ricerche sulla sua ascendenza, e tali studiosi compirono queste ricerche fino a ritenere che egli fosse discendente addirittura dagli Imperatori di Bisanzio.
I De Curtis di Somma Vesuviana
Secondo la versione ufficiale fu durante questa ricerca che Totò entrò in contatto con i De Curtis originari di Cava dei Tirreni e stabiliti da tempo a Somma Vesuviana. In base a questo racconto il cosiddetto “cugino” Gaspare fu ben felice di collaborare alle ricerche dell’attore e fu proprio presso il suo castello che furono rinvenuti i numerosissimi documenti che gli consentirono di presentare richiesta al Tribunale per il riconoscimento dei titoli e dei cognomi.
I De Curtis (o anche Della Corte) furono un’antica famiglia longobarda (attestata dal X-XI secolo), originaria della zona fra Salerno e Cava dei Tirreni.
Fra i personaggi celebri della famiglia De Curtis: Giovanni e Bartolomeo (XIII secolo), prestarono denaro a Carlo I d’Angiò; Leonetto (XV secolo), milite e regio consigliere, partecipò alla battaglia di Sarno (1460) e fu capitano di Reggio (1465); Giovan Andrea, Presidente del Sacro Regio Consiglio; Francesco e Scipione, consiglieri di S. Chiara; Camillo vice cancelliere del regno, avvocato del regio patrimonio, presidente della Regia Camera della Sommaria e reggente del Supremo consiglio d’Italia nella corte cattolica. Tommaso, nativo di Napoli, cavaliere di Malta (1582); Paolo (XVI-XVII secolo), vescovo di Ravello (1591) e poi di Isernia.
Un loro ramo ebbe poi la contea di Ferrazzano: da quest’ultimi riteneva di discendere Totò.
Nel documento notarile di una compravendita in Salerno del 1278, Bartolomeo De Curtis, acquistando un terreno, ricordò che il suo capostipite era stato il conte Atenolfo (XI secolo), padre di Ademario, da cui in linea retta erano discesi Mario, Landolfo e Matteo, padre del detto Bartolomeo).
Il trasferimento della famiglia da Cava dei Tirreni a Somma Vesuviana avvenne con l’acquisto nel 1691 da parte di Luca Antonio De Curtis del castello di Alagno, lo stesso dove Totò incontrò il cugino Gaspare e rinvenne i documenti.
Un diretto discendente di Luca Antonio, Michele (morto nel 1756) ottenne il titolo di Marchese con Sovrano Privilegio del 30 dicembre 1733.
Come risulta poi dai Manoscritti di Livio Serra, conservati nell’Archivio di Napoli (vol. V, pag. 1636), da costui discesero, in linea discendente retta ed ereditando il titolo marchionale, Gaspare (1719-1799), Camillo (1758-1840), Pasquale (1807-1892), Camillo (* 1842) e Gaspare (*1887), che fu il “cugino” con cui Totò strinse rapporti.
Sembra che dai documenti presentati Totò risultasse discendente da un ramo collaterale al primo Marchese De Curtis, il citato Michele, attraverso Federico, un fratello di Michele che, per quanto risulta a oggi, ebbe solo discendenza femminile.
Non ci sarebbe, stanti così le cose, una discendenza nemmeno collaterale dal primo Marchese de Curtis, e anche vi fosse, quel ramo non avrebbe goduto del titolo trasmesso soltanto per via diretta.
La prova “dipinta” della sua ascendenza
Tra le prove di questa ascendenza Totò provò a far ammettere anche il ritratto di Camillo De Curtis, giurista del XVI secolo, che vide esposto al Comune di Cava dei Tirreni. Il quadro ritrae un uomo maturo che somiglia in maniera a dir poco impressionante proprio ad Antonio De Curtis. Alcuni dipendenti comunali del tempo, raccontarono che Totò disse di essere disposto a pagare qualunque cifra pur di entrare in possesso dell’opera. Fu quindi indispettito dal rifiuto senza appello del sindaco, Eugenio Abbro, il quale rispose che l’opera era patrimonio inalienabile della città. C’è chi è disposto a scommettere che quell’episodio colpì talmente Totò da indurlo a inserire, in alcuni film successivi, scene in cui il protagonista passeggia nella galleria dei quadri degli antenati, ravvisando in tutti una somiglianza innegabile con lui.
L’attuale sindaco di Cava, Marco Galdi, riferisce che dell’avvenuto incontro esistono testimonianze nell’archivio comunale, dove è custodito un documento in cui si descrive, nei dettagli, il colloquio tra Abbro e Totò.
L’11 settembre 2013, in occasione della serata finale del Premio Teatrale “Li Curti”, il sindaco Marco Galdi consegnò a Liliana De Curtis, unica figlia di Totò e madrina della serata, una copia a grandezza naturale del dipinto.
Dai De Curtis a Bisanzio passando per i Griffo
Anche ammessa la discendenza da Federico De Curtis, la ricostruzione genealogica del nostro Totò arriverebbe al massimo al X-XI secolo e a una casata longobarda, non certo bizantina.
I suoi esperti trovarono però il modo di collegare i De Curtis di Ferrazzano con un’altra casata: i Griffo di Napoli apparentati con i siciliani Grifeo di Partanna e da questi, attraverso il presunto capostipite, dichiararlo discendente da Niceforo II Focas che fu imperatore dal 963 al 969.
La famiglia Grifeo di Partanna vanta infatti come capostipite Giovanni I, figlio di Auripione, a sua volta figlio di Leone I Focas, il quale avendo sconfitto i Bulgari il cui capo aveva nome Grifo, sostituì il cognome Focas con quello di Grifeo. La tradizione, avvalorata dalle tesi “mitiche” di storici quali Rocco Planeta, Mugnos e altri riporta che Auripione combattè contro i Saraceni in Sicilia. Suo figlio Giovanni sposò Valdetta figlia di Aifredo Braccioforte (Branciforte), e fu Straticò (titolo militare pari a Stratega) di Messina.
Da costui sarebbero discesi poi i Grifeo siciliani. Per approfondire l’albero genealogico e la documentazione storica vi consigliamo di visitare il sito della Famiglia Grifeo, in cui ci si riferisce chiaramente che la genealogia sicura inizia solo da Giovanni I Grifeo (sec. XI). E anche se fosse provata un’origine bizantina dei Grifeo, sono troppo pochi i dati per poter accertare, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, che i Grifeo siciliani erano davvero discendenti dei Focas.
L’assunto prosegue sostenendo che da questa antichissima famiglia nobiliare siciliana si sarebbe poi separato un ramo napoletano: i Griffo appunto. Come ormai potremmo aspettarci, da quanto visto fin qui, non vi è alcuna evidenza storica in grado di correlare la casata Griffo, che compare citata nel 1109 tra i Nobili di Amalfi, e la casata dei Grifeo di Partanna.
L’anello mancante
Come fecero i consulenti araldici di Totò a dimostrare che i De Curtis erano imparentati coi Griffo di Napoli e quindi con i Grifeo di Sicilia? Fu invocato un avo di quel Luca Antonio che acquisì il castello di Alagno, che si sarebbe chiamato Angelo Griffo e che cambiò il proprio cognome in De Curtis.
Non risulta però nessun collegamento tra questo Angelo Griffo e i Griffo di Napoli, appare piuttosto che Griffo, o Grippo fosse un soprannome.
Considerazioni
Abbiamo visto finora quante incertezze, lacune e congetture abbiano costellato il nostro tentativo di ricostruire l’ascendenza vantata da Totò e sostenuta dai suoi esperti.
Ci sarebbe piaciuto trovare traccia di una genealogia completa redatta per l’occasione dai suoi consulenti, ma non ve n’è traccia né menzione. I punti critici sono davvero numerosi:
- la parentela con i De Curtis di Somma che sarebbe avvenuta tramite il ramo di Federico, che risulta abbia avuto solo discendenza femminile
- la parentela dei De Curtis con i Griffo di Napoli attraverso un Angelo Griffo che cambiò il proprio cognome in De Curtis, di cui non si ha alcuna documentazione certa
- la parentela tra i Griffo di Napoli e i Grifeo di Partanna in Sicilia
- la discendenza dei Grifeo dai Focas
Nelle sentenze del tribunale a favore di Totò inoltre vengono riportati alcuni titoli ancora più incredibili:
Porfirogenito, ad esempio, letteralmente “nato nella porpora”, era un titolo onorifico conferito al figlio o alla figlia dell’imperatore regnante dell’impero bizantino. Non tutti i principi imperiali ricevevano questa distinzione, data solamente a fronte di particolari condizioni. La principale era quella di essere nato dall’imperatore regnante e di venire alla luce nella “Πορφύρα” (Porphýra, la camera di porpora, un’ala del Grande Palazzo di Costantinopoli). Secondo la descrizione di Anna Comnena, la sala si trovava su una delle terrazze del palazzo, con vista sul Mar di Marmara e sul Bosforo. Era di forma perfettamente quadrata, con il soffitto in forma piramidale. Era interamente rivestita di porfido purpureo, picchiettato con puntini bianchi.
L’altra importante condizione per ottenere lo status di Porphyrogénnētos era lo status paterno di Basileus (βασιλεύς), che doveva essere sposato con l’Imperatrice consacrata come Basilissa (Βασίλισσα).
Notiamo poi che tra i cognomi riconosciuti a Totò vi siano quelli di numerose e diverse dinastie:
- la dinastia dei Ducas, che regnò sull’impero bizantino dal 1059 al 1078, e poi ancora nel 1204
- la dinastia dei Comneno, che governò dal 1057 al 1059, e poi dal 1081 al 1185
- la casata dei Flavio Angelo, regnante dal 1185 al 1204.
Il motivo è che le dinastie furono tra loro imparentate e costituiscono un preciso ramo di discendenza:
La Famiglia Angelo, o d’Angelo, o Angelo Flavio Comneno Duca si è detta, da alcuni autori, di antica origine napoletana o addirittura inglese. Tali asserzioni non sono assolutamente vere. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che essa sia di origine greca, discendente direttamente dai grandi Imperatori di Bisanzio e cioè dagli Angelo, detti Comneno. ….omissis …
Non tutte le ricordate famiglie possono vantare una discendenza diretta dagli Angelo Comneno. L’unico che finora ha potuto dimostrare tale illustre discendenza é proprio il Ramo dei Flavio Comneno Ducas, alla luce degli atti genealogici, di archivio, di curia, parrocchiali, chirografi ed altro ancora a nostra disposizione.
“Storia e genealogia della Imperiale Famiglia Angelo Comneno Ducas o Angelo Flavio Comneno Ducas” di Simonetta Angelo-Comneno, collana “Saggi, studi, testi”, 2007)
Il “Flavio” deriva dalla rivendicazione della casata stessa degli Angelo di discendere dalla famiglia Flavia.
Includiamo di seguito un breve filmato della conferenza stampa tenuta sull’argomento dinastico da Totò in cui si intravedono alcuni dipinti di avi esposti nell’abitazione e viene mostrato un tomo comprovante, secondo Totò, uno dei passaggi della sua discendenza.
Contestazioni
L’argomento della supposta discendenza di Totò da una o più stirpi nobiliari è stato ampiamente trattato da Camillo De Curtis nel suo libro “Storia della Famiglia de Curtis dai Longobardi fino alla falsa nobiltà di Totò: trascrizione, ricerca bibliografica ed archivistica a cura di Domenico Russo”, in cui l’autore non solo disconosce ogni parentela con Totò, ma ritiene anche falsa la presunta collaborazione con il padre Gaspare, il famoso cugino. Il volume, pubblicato solo nel 2005, costituisce una specie di “testamento” dell’autore che scomparve solo un anno dopo. In una lettera al quotidiano Repubblica lo stesso Camillo De Curtis scrive:
La verità è che io ho avuto molta pazienza, per mezzo secolo. Non mi sono mai affannato su questa storia, anche se gli amici e i miei nipoti mi hanno più volte invitato a risolvere anche legalmente la questione. Sarà per lo stile da un lato, ma anche per la necessità di occuparmi di cose serie dal dopoguerra: il lavoro e la mia famiglia. E così educato all’ inutilità della nobiltà da mio padre e con la paura inculcatami da mio nonno che sentenziava che avere avi illustri dà solo doveri, per mezzo secolo mi sono totalmente estraniato dalla vicenda. (omissis)
Non è la mia famiglia del resto ad aver mai sostenuto la parentela con l’ attore, ma è vero il contrario. E’ vero cioè che Totò prima e la figlia Liliana tutt’ oggi rivendicano una discendenza dai miei avi che non è mai esistita. Ed è stata proprio Liliana a farmi perdere la pazienza con pubblicazioni, interviste e articoli in cui continuava a raccontare bugie. Se non ha mai risposto alle mie lettere, forse una ragione ci sarà. Mi chiedo piuttosto dov’ era la cultura ufficiale e anche Mario Franco (autore di un articolo apparso su Repubblica n.d.r) in tutti gli anni precedenti, perché nessuno, tra i cosiddetti intellettuali (tranne Pasolini, citato nel mio libro), storici o giornalisti ha sentito il dovere di verificare una fandonia così grande.
Vi furono poi numerose contestazioni da parte di altri nobili, e in particolare da parte del controverso personaggio “pretendente” allo stesso titolo di Totò: Marziano II di Lavarello per la cui pittoresca storia rimandiamo a un ricchissimo articolo.
Va detto che in epoca ormai Repubblicana, i titoli non avevano più alcun valore in Italia, valevano solo come cognomi e predicati.
Fu questo che i Tribunali della neonata Repubblica fecero per Totò: autorizzarlo all’uso di cognomi e “titoli” senza alcun valore materiale.
Anche così è piuttosto stupefacente che gli siano stati riconosciuti e che successivamente, nel 1960, siano stati riconosciuti anche alla figlia Liliana e al nipote Antonello.
L’unica spiegazione plausibile è quella proposta dal già citato Giovanni Grimaldi, ovvero ci fu un periodo in cui la Consulta Araldica era già stata abolita dalla Costituzione ma non era ancora entrata in vigore la sentenza di cassazione (del 1963) che proibiva ai Tribunali di occuparsi di diritto nobiliare e dinastico.
In quell’interregno furono molti quelli che si rivolsero ai Tribunali per vedersi riconoscere titoli, ma non vi erano, tra la confusione degli archivi del dopoguerra e la scarsa preparazione in materia dei giudici, i presupposti per poter emettere delle sentenze significative. Quelle sentenze furono però emesse e davanti a tale riconoscimento, anche organi ormai privati, come il Collegio Araldico, decisero di riconoscere al De Curtis la lunga serie di cognomi e di numerosi titoli a lui spettante come erede ormai riconosciuto dalla legge della dinastia bizantina dei Foca, inserendolo quindi nel Libro d’Oro della Nobiltà Italiana.
Per quanto ci riguarda, trascorso più di mezzo secolo dalla sentenza di Tribunale, il valore del titolo nobiliare ci appare ancora più sminuito e veramente di scarsa importanza. Rimane però l’incredulità per l’enormità dello sforzo compiuto da Antonio De Curtis per raggiungere il massimo vertice possibile della nobiltà: Altezza Imperiale.
Le energie e l’immane quantità di denaro spese per raggiungere il suo scopo suscitano persino tenerezza.
Ma non è tutto qui. Appena il suo successo e le sue finanze glielo consentirono visse realmente da Principe, abitando splendidi appartamenti nei quartieri esclusivi di Roma, circondato da servitù e autista e da oggetti di antiquariato costosi e importanti che ricercava e collezionava, quasi a ricostruire un’eredità anche materiale della sua “dinastia”.
Ma ancora di più assunse l’atteggiamento dell’aristocratico, vivendo in composto e dignitoso ritiro, non amando la mondanità, dedicandosi a beneficenza, musica e poesia.
Dal nostro punto di vista, certamente lontano da quell’epoca ancora “monarchica” nella mentalità, e lontano da quelle necessità di rivincita sociale dell’ex “figlio di N.N.”, risulta facile giudicare inutile e anche un po’ goffo tutto quell’affanno per raffazzonare un lignaggio antico. Ma anche questo “rovescio della medaglia” di Antonio, così come la sua maschera Totò, fanno di lui un personaggio unico e ci consentono di leggere una storia italiana recente fatta di “Miseria e Nobiltà”.
Bibliografia e approfondimenti
- Andrea Borella “Annuario della Nobiltà Italiana” Edizione XXXI Teglio (SO) 2010 S.A.G.I. Casa Editrice vol. 1 pag. 1935
- G. Fofi, De Curtis, Antonio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 33° vol., Roma 1987, ad vocem
- Liliana De Curtis, Matilde Amorosi, Totò a prescindere, Arnoldo Mondadori Editore, 1992
- Totò, Matilde Amorosi, Alessandro Ferraù, Liliana De Curtis, Siamo uomini o caporali? – Diario semiserio di Antonio de Curtis, Newton Compton, 1993
- Liliana De Curtis, Matilde Amorosi, Malafemmena, Mondadori, 2009
- Liliana De Curtis, Antonino Miele, Matilde Amorosi, Ogni limite ha una pazienza, Rizzoli Editore
- Ennio Bispuri, Vita di Totò, 2000, Gremese Editore
- Simonetta Angelo-Comneno,“Storia e genealogia della Imperiale Famiglia Angelo Comneno Ducas o Angelo Flavio Comneno Ducas” , collana “Saggi, studi, testi”, 2007
- Camillo De Curtis, “Storia della Famiglia de Curtis dai Longobardi fino alla falsa nobiltà di Totò: trascrizione, ricerca bibliografica ed archivistica a cura di Domenico Russo”, Napoli, Ed. Summana, 2005
- Io, il vero De Curtis, vi racconto Totò
- Totò truffa 2002 sito dedicato all’attore
- Oriana Fallaci e Totò, principe metafisico, Intervista per L’Europeo, 1963
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