Dalla rubrica sui film storici di Archeologia tardoantica e altomedievale a Siena pubblichiamo la recensione di Marco Valenti.
L’interesse per il Medio evo del grande Bergman è più o meno automaticamente collegato dalla maggior parte delle persone, al meraviglioso “Settimo sigillo” girato nel 1957.
La mente va subito all’immagine del cavaliere (interpretato da Max von Sydow, attore icona del regista in quegli anni) che gioca a scacchi con la morte oppure alla danza macabra finale; scene rese ancor più suggestive dal bianco nero.
Un film che in molti mettono al primi posti dei migliori 100 nella storia della cinematografia.
Ma nel 1960 Bergman firma un’ulteriore pellicola di ambientazione medievale, La fontana della vergine (in originale Jungfrukallan), soggetto tratto da una ballata svedese del XIV secolo, che lo portò peraltro al suo primo Oscar.
La trama è incentrata sull’omicidio, vero e proprio martirio, della vergine Karin (figlia di un proprietario rurale benestante) in viaggio, come da tradizione, per portare i ceri alla Madonna nella chiesa posta oltre il bosco che la separa dall’abitazione paterna.
Il crimine è opera di alcuni vagabondi diseredati, poi puniti dalla vendetta del padre, il quale quando ritrova il corpo esanime, lo abbraccia e lo solleva, assiste al miracolo: dal punto in cui era poggiata la testa della ragazza sgorga una sorgente d’acqua, con cui i presenti si bagnano in segno di purificazione.
Lascio comunque alla visione del film i particolari della trama, molto articolata e sfaccettata con le implicazioni di tipo religioso, umano e sociale.
Per lo spirito che anima questa pagina, sottolineo rapidamente alcune caratteristiche del film che vanno notate da coloro i quali decideranno di guardarlo ed in particolare mi rivolgo ai nostri studenti.
Caratteristiche che rivelano peraltro la grande conoscenza o passione che Bergman aveva per il medio evo svedese, nata dalle sue esperienze di gioventù quando, come lui ebbe a dichiarare:
«Qualche volta, da bambino, mi fu permesso di accompagnare mio padre al lavoro. Predicava nelle piccole chiese dei paesi intorno a Stoccolma. Erano viaggi festosi e festivi, fatti in bicicletta attraverso un panorama primaverile. Mio padre mi insegnava i nomi di fiori, degli alberi e degli uccelli. Passavo il giorno senza essere disturbato dal mondo intorno a me. Per un piccolo il sermone è soltanto una questione da adulti. Mentre mio Padre predicava dal pulpito e la congregazione pregava e cantava anch’essa, io dedicavo, invece, il mio interesse al mondo misterioso della chiesa fatta di archi bassi e muri spessi. Ero rapito dall’eternità.
La luce del sole colorata vibrava sopra i dipinti medievali e le figure intagliate su muri e soffitti. C’era tutto quello che una fervida immaginazione poteva desiderare: angeli, santi, dragoni, profeti, diavoli, creature umane. C’erano animali che incutevano molto paura: serpenti in Paradiso, l’asino di Balaam, la balena di Jonah, l’aquila della Rivelazione. Tutto circondato da un panorama paradisiaco, insieme terreno e sotterraneo, fatto di un strano miscuglio eppure dalla familiare bellezza».
Alcuni dei tratti degni di nota
Il bosco caratterizza l’intera ambientazione del film, circondando l’oasi di vita pacifica e lenta che si svolge nella fattoria, essendo luogo di vita e di morte sino al verificarsi dell’evento purificatore e salvifico.
Bergman lo rappresenta perfettamente, ben conscio che costituiva una presenza centrale nella vita del medio evo, condizionando la cultura materiale e l’immaginario, le forme produttive e gli atteggiamenti mentali.
Gli uomini instaurarono con esso un rapporto spesso contraddittorio.
Il bosco era luogo di caccia e di produzione di legname, rifugio di banditi, infestato di belve feroci, dominato da spiriti e divinità; fa paura ma la paura non è tale da impedire lo sfruttamento della sua risorsa ed il suo uso: «ed esso viene misurato, tutelato, sfruttato, talora profondamente modificato e in certi casi-limite (significativi pero’ anch’essi del rapporto familiare che gli uomini avevano instaurato col bosco) perfino distrutto».
Si legga e approfondisca pertanto attraverso il datato ma bellissimo B. Andreolli – M. Montanari, Il bosco nel Medioevo, Collana Mosaici, 4, Bologna – Clueb 1995, dal quale è tratta questa citazione, nonché il V. Fumagalli, L’uomo e l’ambiente nel Medioevo, Roma-Bari – Laterza 1992.
Tore (il grande Max von Sydow), nobile di sangue e d’animo, vive in aperta campagna nella sua fattoria; come abbiamo già detto, una sorta di isola con campi intorno immersa nella vasta distesa alberata.
E’ un uomo d’armi, dotato di cavalli, che quando non impegnato a combattere conduce una pacifica esistenza nella sua proprietà con la famiglia e i servi.
E’ il signore indiscusso della fattoria; esemplare e con ampi riscontri archeologici, per esempio, la sedia-trono posta al centro della tavola a lui destinata; o l’ammissione degli ospiti a tavola che, di rango inferiore, vengono serviti dopo Tore stesso.
Dorme in una stanza con letto di legno, i servi della casa e gli ospiti in lettiere riempite di paglia poste ai lati del fuoco e nella parte centrale della grande casa che costituisce il nucleo centrale della fattoria.
Formidabile anche la ricostruzione accurata della cultura materiale, sino agli abiti.
La rappresentazione data della fattoria (per la quale credo il regista sia ricorso a ricostruzioni tipo archeodromo che in quegli anni erano già presenti in Svezia) è quella di una cosiddetta “fattoria magnatizia” scandinava.
Si tratta di una tipologia di contesto insediativo che l’archeologia ha ben delineato negli ultimi sessant’anni: grandi hall (longhouse molto articolate) isolate nella campagna e fortificate, con annessi alcuni edifici sia di carattere funzionale sia destinati a servi, pozzi e magazzini. Nel nostro caso, gli edifici disposti a circolo costituiscono anche gli elementi della fortificazione, collegati fra loro da fasciami di travi orizzontali. Si evince una chiara distinzione fra strutture abitative (costruite a telaio di legno con elevati in terra pressata intonacata) e edifici di servizio o funzionali edificati interamente in legno.
Lo spazio centrale aperto attorno al quale si raccoglie il complesso costituisce una sorta di grande aia, dove si osservano i servi spalare il concio, effettuare altri compiti del tran tran quotidiano della vita rurale.
La grande aia è caratterizzata dalla presenza di un pozzo d’acqua con intelaiatura lignea, dove la captazione avveniva attraverso un lungo braccio di legno inclinato di 45° con corda passante montato su un breve trave verticale identico a quello scavato dagli archeologi a Fochteloo.
Gli esempi scavati di complessi simili sono ormai innumerevoli dalla penisola scandinava all’Olanda (da Lejre a Dankirke nei pressi di Ribe) e la lista dei rinvenimenti è ormai sconfinata; eviterò pertanto di proporla.
L’archeologia ci mostra che queste realtà insediative ebbero inizio con il tardo periodo romano; il livello sociale da esse rappresentato (“magnati” o capi) era relativamente stabile: un gruppo privilegiato ma non necessariamente molto ricco. Rappresentavano quindi la base economica e la residenza delle élite rurali di medio livello.
E Tore, nella rappresentazione bergmaniana, è un’esponente di tale classe sociale.
Anche la presenza nel film della serva Inger, pagana e dedita al culto di Odino, rivela una realtà archeologica attestata; in un periodo in cui il cristianesimo è ormai ben diffuso, nelle campagne esistevano ancora ampie sacche di paganesimo, legate alla religione tradizionale. Karin vergine e cristiana, Inger, incinta a seguito di una violenza e pagana, incarnano quindi le contrapposizioni tra religione pagana e religione cristiana, tema che percorre tutto il film.
Alla fine però i due ruoli vengono quasi ad invertirsi perché Karin viene brutalmente violentata e uccisa, mentre Inger abbandona il suo dio pagano e si purifica nelle acque della fonte sorta nel luogo della morte di Karin.
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