Il garum è una salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato che gli antichi Romani aggiungevano come condimento, così diffusa che laddove non specificato nelle ricette risalenti all’antica Roma, per salsa si intende il garum, ma potrebbe anche essere: liquamen o muria e anche allec.
Non so voi, ma la prima volta che ne ho letto la mia sensazione è stata di ripulsa. Eppure anche al giorno d’oggi esistono parecchie salse di pesce utilizzate nelle gastronomie di tutto il mondo.
Come quelle vietnamita, thailandese, laotiana, cambogiana, filippina, cinese e altri paesi del Sud-Est Asiatico. Può essere aggiunta a qualsiasi piatto durante il processo di cottura o mescolata ad altri condimenti in differenti maniere a seconda degli usi locali di ogni paese menzionato: con il pesce, crostacei, molluschi, pollo e tutti i tipi di carne. Nella Cina del Sud, viene usata spesso nella zuppa, nel brodo e per la casseruola.
Per restare nell’Italia odierna si trova la pasta d’acciughe, un composto di alici essiccate e lasciate marinare sotto sale, poi private della testa e deliscate e successivamente tritate fino a rendere il composto cremoso. Viene usata in vari condimenti come esaltatore del sapore a varie pietanze come la Bagna càuda o il Bagnun o semplicemente per farcire tartine, snack e salatini. La variante italiana che si avvicina di più alla “salsa di pesce” asiatica è molto probabilmente la Colatura di alici di Cetara, una salsa liquida trasparente dal colore ambrato che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici.
Ma andiamo con ordine.
Origini del garum
L’immediata associazione del garum alla cucina romana la dobbiamo soprattutto ad Apicio, noto personaggio citato dagli autori latini come grande amante dei banchetti e di manicaretti ricercati, e sotto il cui nome ci è giunta una preziosa compilazione di ricette in dieci libri. Infatti Apicio nel suo ampio ricettario propone l’uso del garum o liquamen, come lui stesso lo chiama, come insaporitore in almeno venti diverse ricette, dalla carne al pesce, dalla verdura alla frutta. Il nostro palato inorridisce all’idea, ma sono stati proprio i Romani a dire de gustibus non est disputandum in fondo.
Tuttavia non solo i romani ne fecero uso.
Il garum fu in epoca storica un condimento usato nella cucina greca, e in generale nella cucina dei popoli mediterranei ellenizzati. Le prime testimonianze del suo impiego lo troviamo nelle fonti letterarie greche. Ve ne è una fugace menzione nelle opere frammentarie a noi giunte dei poeti comici Cratino e Ferecrate, vissuti nel V secolo a.C. Tra i tragici, Eschilo1 ci informa che questo si otteneva dai pesci, mentre Sofocle nei frammenti del Trittolemo2 sembra aggiungere notizie a quanto aveva detto Eschilo, definendo il garum ταριχηρός, ovvero salato. E ancora Platone3 qualifica ulteriormente questa salsa con l’aggettivo σαπρός, ovvero putrido.
A voler essere pignoli esiste anche un potenziale progenitore del garum in Mesopotamia, dove viene utilizzato l’alusa kud , termine tradotto con “salsa di pesce” appunto. Siamo nel III millennio a.C.
Un lontano parente del garum, è il murri di pesce: una salsa fermentata di lunga conservazione usata nella cucina arabo-islamica.
Le Officine del garum
Tuttavia, per avere notizie più certe e dettagliate, bisogna rifarci a quanto ci dice Plinio il Vecchio4. Questi nel libro XXXI della sua Naturalis Historia afferma:
“Un altro tipo di liquido pregiato, che chiamarono garon, è fatto con intestini di pesci e altre parti che di norma si dovrebbero buttare via, macerati nel sale, sicché quello diventi la feccia di cose in putrefazione. Questo garum era una volta ottenuto da un pesce, che i Greci chiamavano γάρος, notando che bruciandone la testa con un suffumigio, si estraeva la placenta…”
Apprendiamo così che questo liquamen era appunto un liquor, un liquido, che sebbene fatto con le parti di scarto del pesce, quali intestini, branchie e sangue macerati nel sale, era assai pregiato. Non è del tutto corretto da parte di Plinio parlare di putrefazione, ma si tratta piuttosto di un’auto-digestione del pesce operata dagli enzimi proteolitici presenti nelle interiora stesse, ma questo il buon Plinio non poteva saperlo. Altra importante notizia che ci viene fornita in questo passo è che i Greci furono i primi a produrre il garum, così chiamato perché prodotto con un piccolo pesce detto garos, che però già Plinio non sa identificare. Se un tempo era usato quel misterioso pesce chiamato garos, ai tempi di Plinio, ovvero nel I secolo a.C., si usavano gli sgombri, che, da come ci viene riferito, non avevano altri usi oltre la produzione della salsa di pesce di prima qualità. Plinio nel capitolo 95 seguita così:
“Oggi il garum più pregiato si ottiene dallo sgombro negli allevamenti di Cartagine Spartaria: è chiamato garum dei Soci, con mille sesterzi se ne comprano quasi due congi. Nessun liquido, ad eccezione dei profumi, inizia ad avere prezzo maggiore, anche tra i popoli di un certo rango. Anche la Mauretania e la Carteia della Betica catturano gli sgombri che provengono dall’Oceano, e che non sono utili ad altro. Sono celebri per il garum anche Clazomene, Pompei e Leptis: così come per la salamoia (muria) Antipoli e Turi, e in verità anche la Dalmazia”
La notizia di questa intensa pesca, produzione e commercio di garum ci è confermata anche dal geografo greco Strabone6, il quale riferisce :
“Vi è poi l’isola di Ercole appena dietro Cartagine, che è detta Sgombraria per la cattura degli sgombri, dai quali si ricava il garum migliore…”
Questa industria costituiva una ricca fonte di guadagni specialmente per quelle città che si trovavano nei pressi dello stretto di Gibilterra, che intercettavano gli sgombri che entravano nel Mediterraneo dall’Atlantico: sulle coste della penisola iberica e del Marocco ancora sono visibili resti di fabbriche di garum, e specialmente dei grandi recipienti seminterrati in terracotta, detti dolia, in cui avveniva la macerazione del pesce.
In età augustea la produzione qualitativamente e quantitativamente maggiore sembra arrivare dalla Spagna; questo dato viene confermato sia da Apicio che apprezza particolarmente i garum iberico, sia dalla politica dello stesso Augusto a favore di quegli stessi impianti.
A causa della globalizzazione, alcune fabbriche di salsa site sul territorio italico furono ridotte sul lastrico come affermato da un team internazionale di scienziati che, coordinato da Steven Ellis, archeologo e professore di Archeologia dell’università di Cincinnati, nell’Ohio, grazie agli studi condotti anche a Pompei ha evidenziato questa delocalizzazione “ante litteram”.
Da Pompei arrivano altri dati molto interessanti e in particolare dall’analisi dei resti ritrovati nelle anfore della Casa – Officina del garum degli Umbricii.
Il tragico evento del 79 d.C con l’eruzione del Vesuvio ha rappresentato per l’archeologia un unicum per la ricostruzione di diversi aspetti della vita quotidiana del periodo imperiale; l’archeologia ha ripagato restituendo, scherzo del destino, immortalità a un sito che la natura aveva “azzerato”.
Come anticipato, all’interno del sito di Pompei è stata ritrovata una struttura di vendita del garum, forse uno dei centri maggiori finora ritrovati, la cosiddetta Officina del Garum, situata ad ovest dell’anfiteatro pompeiano. Al momento, però, non è stato rinvenuto nessun centro di produzione della salsa sulle coste campane, di cui si ha notizia ma nessuna evidenza.
Il garum veniva realizzato normalmente nelle stesse strutture adibite alla “logistica” della pesca e all’allevamento ittico: la lavorazione avveniva in apposite vasche di fermentazione rivestite di opus signinum o cocciopesto, cioè un materiale edile che si usava per rivestire pareti e pavimenti in quanto impermeabilizzante (Vitruvio ne racconta uso e realizzazione: frammenti di laterizi mischiata con malta fine. Per gli appassionati si consiglia L’arte di costruire presso i Romani di Adam, Ed Longanesi). Mentre nelle piscinae ovivaria erano allevati i pesci, nelle cetariae venivano realizzate le salse e le conserve di pesce.
Si commerciavano anche una specie di garum senza condimenti, il gari flos, e una specie fatta di pesce a scaglie, il garum castimoniale. Il garum sociorum essendo essenzialmente una salamoia satura in cloruro di sodio in presenza di enzimi proteolitici, oltre a essere un buon digestivo, presentava qualità disinfettanti, paragonabili alla tintura di iodio e a blandi antinfiammatori. Dunque veniva usato come medicinale contro la scabbia degli ovini, le ustioni recenti, i morsi dei cani e del coccodrillo, per guarire le ulcere, la dissenteria e i malanni delle orecchie.
Conferma quanto dice Plinio Isidoro di Siviglia, nella sua opera in venti libri di carattere enciclopedico, le Etymologiae5 :
“Il garum è un liquido salato di pesce, che un tempo era fatto con un pesce che i Greci chiamavano garon, e per quanto ora venga prodotto con molti altri tipi di pesce, tuttavia conserva l’antico nome dal quale prese inizio. Il succo è chiamato così perché dei pesciolini, sciolti nella salamoia, colano il proprio umore”
E’ da rilevare però che quanto scritto nelle Etymologiae circa l’origine del nome della nostra salsa con ogni probabilità deriva direttamente da quanto afferma Plinio, autore che Isidoro in alcuni passi della sua opera segue alla lettera.
Ma ancora nelle Geoponiche, di autore ed epoca ignoti, è scritto (XX, 46, 1 sgg.): “gettare in un recipiente interiora di pesce e piccoli pesci con sale e lasciare al sole e mescolando frequentemente. Filtrare grossolanamente la salamoia in una cesta, dove rimane l’allec, la parte solida. Alcuni aggiungono anche due misure di vino vecchio per ogni misura di pesce. Se si ha bisogno di usare subito il garum senza tenerlo tanto al sole, si cuoce rapidamente mettendo il pesce in acqua di mare concentrata in modo che un uovo vi galleggi, fino a quando non sia ridotto abbastanza di volume, quindi si cola. Ma il fiore del garum si ottiene con le interiora, il sangue ed il siero dei tonni sopra cui si sparge sale e si fa macerare per due mesi.”
Altri riferimenti
Columella in De re rustica, (VI, 34) cita il garum come rimedio contro la pestifera labes che prende le cavalle e in pochi giorni le conduce alla morte. La terapia consisteva nel versare nel naso dell’animale almeno quattro sestari di garum pari a circa 2, o più fino ad un massimo di 3 litri.
Seneca in una lettera a Lucilio (Epistulae morales ad Lucilium, XV, 95, 25), lanciando i suoi strali contro gli eccessi alimentari, infierisce contro il garum: “illud sociorum garum, pretiosam malorum piscium saniem, non credis urere salsa tabe praecordia?” (“E quella salsa che viene dalle province – è il garum sociorum di cui parlava anche Plinio – preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume?”).
Petronio descrivendo la cena offerta da Trimalchione in Satyricon (36, 3) descrive con dovizia di particolari uno smisurato vassoio al centro del quale prevale una lepre ad imitazione di Pegaso, e agli angoli quattro statuine di Marsia, dai cui otricelli scorre salsa di garum e pepe su pesci posti in un canaletto appoggiati in modo tale da sembrare vivi e nuotare nel mare.
L’odore del garum … in poesia
Le fonti fin qui citate ci danno l’impressione che il nostro garum sia qualcosa dall’odore davvero sgradevole:Platone lo definì putrido, Plinio “feccia di cose in putrefazione“. Addirittura Marziale7 in un suo epigramma lascia intendere che il fiato del suo conoscente Papilo fosse davvero insopportabile scrivendo così:
“C’era del profumo, contenuto poco fa in un vasetto d’onice;
dopo che Papilo l’ha annusato, è diventato garum!”
Possiamo facilmente dedurre che al naso di Marziale il garum risultasse olfattivamente il netto contrario di un unguento profumato, sebbene probabilmente lo stesso garum, al pari dei profumi, venisse conservato in vasetti simili a quelli di alabastro usati per le preziose essenze profumate. In un altro epigramma Marziale8, sebbene sembri rincarare la dose riguardo al presunto cattivo odore del garum, dice una cosa di grande importanza:
“Taide hai un odore peggiore di quello del vecchio vaso di un avaro lavatore, appena rotto in mezzo alla strada; di quello di un giovane caprone dopo essersi accoppiato, della bocca di un leone, della pelle di un cane scuoiata al di là del Tevere, di un pollo che marcisce in un uovo abortivo, di un’anfora viziata da garum andato a male…”
Che questa Taide emanasse effluvi insopportabili, il nostro poeta lo dice chiaramente. Ma quanto a noi interessa in questo passo è il paragone che viene fatto tra il cattivo odore di Taide e un’anfora di garum.
Ma di garum corruptus, guasto, precisa Marziale. Notizia importante e rivelatrice: il garum aveva un puzzo insopportabile solo se andato a male, non sempre. E questo dato ci viene confermato niente meno che da Apicio, che se omette la ricetta del garum, non tralascia di consigliare come comportarsi in caso questo prendesse cattivo odore, circostanza presumibilmente non insolita a cui il cuoco doveva porre rimedio:
“Per correggere il garum: se il garum ha preso cattivo odore, capovolgi un recipiente e affumica con il fumo di foglie d’alloro e di cipresso; e versaci il garum che prima è stato all’aria. Se questo ti parrà salato, aggiungi un sestario di miele e mescola … L’avrai così corretto. Anche il mosto fresco fa lo stesso.”
Al di là di cattivi odori che il garum poteva prendere, presumibilmente il suo odore doveva essere forte, marcato, ma non nauseabondo. Un deciso odore di pesce, unitamente a toni di erbe aromatiche. Nulla di più.
Ricetta
Se voleste provare a produrlo secondo le regole dell’antica Roma vi forniamo la ricetta di Marziale:
“si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di 1/3, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano, menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all’orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo”.
( Plinii Secundi quae fertur una cum Gargilii Martialis medicina, edidit Valentin Rose, Leipzig, Teubner, 1875)
Note
- Eschilo, fr. 211: …καὶ τὸν ἰχθύων γάρον
- Sofocle, fr 606: …τοῦ ταριχηροῦ γάρου
- Platone, fr 656K: …ἐν σαπρῷ γάρῳ
- Plinio, Naturalis Historia, XXXI, 95: Aliud etiamnum liquoris exquisiti genus, quod garon vocavere, intestinis piscium caeterisque quae abicienda essent, sale maceratis, ut sit illa putrescentium sanies. Hoc olim conficiebatur ex pisce, quem Graeci Garon vocabant: capite eius usto, suffitu extrahi secundas monstrantes.
- Isidoro, Etymologiae, XX, 19: Garum est liquor piscium salsus, qui olim conficiebatur ex pisce quem Graeci GARON vocabant; et quamvis nunc ex infinito genere piscium fiat, nomen tamen pristinum retinet a quo initium sumpsit. Liquamen dictum eo quod soluti in salsamento pisciculi eundem humorem liquant.
- Strabone, Geografia, libro III, cap 4,6: Εἶθ’ἡ τοῦ ῾Ηρακλέους νῆσος ἤδη πρὸς Καρκηδόνι, ἢν καλοῦσι Σκομβραρῖαν ἀπὸ τῶν ἁλισκομένων σκόμβρων, ἐξ ὧν τὸ ἄριστον γάρον…
- Epigrammi, libro XII, XCIV
Unguentum fuerat, quod onyx modo parva gerebat,
olfecit postquam Papilus, ecce garum est! - Epigramma XCIII del libro VI:
Tam male Thais olet, quam non fullonis avari
Testa vetus, media sed modo fracta via;
Non ab amore recens hircus; non ora leonis;
non detracta cani Transtiberina cutis;
Pullus abortivo nec quum putrescit in ovo;
Amphora corrupto nec vitiata garo […] - Apicio, libro I, VI: De liquamine emendando: liquamen si odorem malum fecerit, vas inane inversum fumiga lauro et cupresso, et in hoc liquamen infunde ante ventilatum. si salsum fuerit, mellis sextarium mittis et move… et emendasti. sed et mustum recens idem praestat.
Bibliografia:
- Marco Gavio Apicio, De re coquinaria
- Columella, De re rustica
- Petronio, Satyricon
- Plinio il Vecchio, Naturalis historia
- Seneca, Epistulae morales ad Lucilium
- Strabone, Geografia, libro III, cap 4,6
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