Visitando la città di Verona, se guardate un po’ oltre i soliti Giulietta e Romeo e l’imponente Arena romana con il suo vivace mondo musicale contemporaneo, potreste attraversare il Ponte Pietra e approdare “sull’altra riva dell’Adige”, quella sinistra, dove di solito ci si reca per assistere a una rappresentazione estiva nel Teatro Romano o per inerpicarsi a Castel San Pietro e dominare l’abbagliante panorama della città dall’alto.
Questa zona, è una cornucopia di splendori poco noti e per questo a me ancora più cari.
La posizione strategica della città di Verona venne riconosciuta sin dall’epoca preistorica. Nel punto dove l’Adige più si avvicina ai monti Lessini, era presente un castelliere, più o meno nel luogo in cui ora sorge Castel San Pietro: da questo punto era possibile dominare l’attraversamento del fiume e la pianura sottostante.
Qui nasce anche il primitivo insediamento, sino alla rifondazione della città in età romana dentro l’ansa del fiume. Quando i Goti prima e i Longobardi poi giunsero a dominare i resti della Verona imperiale, fu su queste alture che stabilirono il loro quartier generale: in posizione dominante sulla città romana.
Sulla riva sinistra dell’Adige si trovano quindi i maggiori resti della città alto-medievale, quelli almeno che il terremoto del 1117 non ha distrutto. Tra i tanti frutti di questa cornucopia, di cui vorrei occuparmi un po’ alla volta, mi ha sempre colpito una chiesa dal nome misterioso: Santa Maria in Organo.
La chiesa originale venne costruita in epoca longobarda assieme al monastero benedettino.
Da un placito del 26 febbraio 845 si sa che la fondazione del monastero di S. Maria in Organo presso Verona fu opera di un certo duca Lupo e di sua moglie “Ermilenda”.
E’ ragionevole pensare che questo Lupo sia lo stesso che divenne poi duca di Spoleto , poiché l’ultimo atto del duca di Spoleto (Codice diplomatico longobardo, IV, 1, n. 13) riguardava la fondazione del monastero femminile di S. Giorgio di Rieti, nell’aprile 751, e fu emanato a nome della coppia ducale Lupo ed Ermelinda. Nonostante lo scambio vocalico nel nome si è ragionevolmente concluso che fossero le stesse persone
Sulla data esatta di fondazione nulla si conosce, ma il monastero è sicuramente già esistente nel 744 e dalla seconda metà del IX secolo risulta dipendere, invece che dal vescovato di Verona, dal Patriarcato di Aquileia, situazione che si mantenne fino alla soppressione di quest’ultimo nel 1762.
Questa datazione ne farebbe il più antico monastero di cui si abbia notizia per la città di Verona, retto dai benedettini che si occupavano anche dello xenodochio annesso.
Fu distrutta e ricostruita dopo il terremoto del 1117 una prima volta. Dell’epoca di fondazione rimangono elementi nella cripta.
Divenne parrocchia nel XIV secolo. Fino al 1800 era affacciata su un ramo secondario dell’Adige ora interrato, dando il nome Interrato dell’acqua morta all’attuale via che lo sostituisce. Questa originaria idrografia giustifica lo strano orientamento dell’ingresso rispetto all’attuale strada: fino all’interramento al posto della strada scorreva il corso d’acqua e proprio di fronte all’ingresso della chiesa era posto il ponte medievale.
Da Santa Maria in Organo dipendevano un buon numero di chiese sia in città (Santa Maria Antica, Santa Maria in Solaro, Santa Margherita, San Siro, Sant’Apollonia, Beata Vergine, Sant’Agata e Santa Cecilia) sia nel territorio (Santa Maria di Gazzo, Santa Maria di Roncanova, Santa Maria di Sorgà, San Lorenzo a Sezano, Santi Faustino e Giovita a Trezzolano, San Donato in Valpantena, San Michele di Mizzole e altre assegnate tra XV e XVI secolo).
La fama di questa chiesa veronese è dovuta al Coro Monastico e alla Sagrestia, opere di fra Giovanni da Verona, preziose per le tarsie e lo studio delle prospettive. Per la sua maestria nella prospettiva, fra Giovanni da Verona conobbe molti artisti come il Pinturicchio e Andrea Mantegna. Proprio il Mantegna realizzò la pala per l’altare maggiore di S. Maria in Organo, oggi conservata a Milano.
Il suo archivio, attualmente confluito nell’Archivio di Stato di Verona, conserva cospicua e risalente documentazione: si contano più di 300 pergamene entro il XII secolo, di cui poco meno della metà entro l’XI, dunque con una forte rilevanza della parte più antica che fa di questo archivio un unicum nel panorama documentario veronese.
La chiesa vanta uno degli organi più antichi della provincia, opera del maestro Nicola nel 1506 e più volte ristrutturato. Tuttavia il nome non dipende dall’organo della chiesa ma da un‘opera idraulica: il monumentale orologio di costruzione romana, raffigurato in una antichissima mappa di Verona «l’Iconografia rateriana» del IX secolo.
Guardando in alto, questa antica pianta cittadina del Codice CXIV-106, conservata presso la Biblioteca Capitolare di Verona, sulla destra, tra le costruzioni, osserviamo un enorme edificio a forma di Torre che sporge dietro i fabbricati, al di fuori delle mura cittadine, ai piedi della collina e lambito dall’Adige: L’Organum.
La parola latina, traducibile con strumento, meccanismo, è scritta tra le colonne “orfanum” ed è stata riconosciuta alterata per la cattiva copiatura attraverso i secoli, con la sostituzione della G in F molto simili graficamente tra loro a quell’epoca.
La monumentale costruzione romana, visibile quasi per intero, è composta da strutture massicce sovrastanti un basamento a gradini che sostiene un robusto corpo centrale, sormontato da una corona di archi. Osservando attentamente il loggiato a colonne, lo notiamo raffigurato vuoto all’interno e circolare. Lo dimostrano l’ombra al disopra della nicchia e i due archi estremi prospetticamente più stretti: perciò è intuibile che altrettanti archi a colonne eguali fossero presenti nella parte retrostante.
Disegnando in piano la forma geometrica si forma esattamente un ottagono, figura largamente usata da popoli antichi come base di costruzione di segnatempo solari verticali. Ricordiamo qui l’orologio di Andronico di Cyrros, citato da Marco Vitruvio Pollione (I secolo) che nel suo primo libro «De Architettura» nomina la «Torre dei Venti», di fatto un segnatempo solare dotato all’interno di un orologio ad acqua e usato dai Greci come cronometro, costruito in Atene nel primo secolo avanti Cristo.
Su questo genere di orologi solari la lettura delle ore semplificate in quaternarie o periodi di tre ore, veniva indicata su quattro facce, quelle rivolte verso il Sole a mano a mano che successivamente si illuminavano dall’alba al tramonto. L’Iconografia Rateriana che pone chiaramente il lato orientale a destra di chi guarda, mette in piena luce la parte funzionale dell’orologio solare: i quattro archi visibili della loggia «Organum».
Ogni arco, determina l’ora quaternaria composta di tre ore temporali, pertanto nel settore o arco rivolto ad oriente viene letto il primo orario, ossia l’ora terza, mentre nel secondo arco si rileva la sesta ora che chiude con la colonna centrale, continuando troviamo la nona ora e nell’ultimo arco seminascosto la successiva ora dodicesima, che chiuderà il ciclo col tramonto solare.
Dal sorgere del Sole sino all’imbrunire, tutte le ore sono qui indicate e divise a destra e sinistra della colonna centrale di mezzodì, ora sesta. È evidente che la lettura viene fatta all’interno della loggia e sulla proiezione modificata e progressiva dell’ombra sul pavimento, che funge da quadrante indicativo come in una normale meridiana a graduazione.
La spiegazione per la quale l’orologio solare fosse installato in alto sulla Torre, viene chiarita dalla parola Organum inserita tra le colonne dall’artista disegnatore, come specifica informazione che il monumento era dotato anche di congegni complementari importanti nonché di una apparecchiatura sonora.
Vitruvio riporta nel suo IX libro «De Architettura» grandi clessidre con suonerie, «Buccinae canunt» suonano le trombe, dice parlando di loro, e più tardi A. Cassiodoro famoso ministro di Re Teodorico, riferendosi all’acustica di un orologio ad acqua scrive «Metalla mugiunt» muggiscono i metalli.
Questi suoni di trombe o muggiti, si ottenevano facendo entrare l’acqua con impeto in recipienti in cui l’unico pertugio di uscita dell’aria era una specie di canna d’organo o zufolo appositamente studiati.
Spiega A. Cassiodoro, in una lettera datata anno 507, Varie 45, “Organa estranei vocibus insonare… Facis aqua ex surgentes precipites cadere…” “strumenti musicali risuonano di voci strane… ottenute dall’espandersi impetuoso di acque sgorganti…”.
Dunque una clessidra sonora, che doveva essere un imponente strumento idraulico, stava racchiusa sicuramente nel corpo centrale della Torre. La difficoltà di lettura oraria là in alto sull’orologio solare da parte dei cittadini veronesi conferma maggiormente che l’Organum indicava attraverso suoni lo scorrere del tempo per la pubblica utilità. D’altra parte è logico arguire come una clessidra che funzioni sempre, bello o brutto tempo, notte e giorno dovesse essere accoppiata a un altro orologio esatto per accordarsi, tempo permettendo, con l’unico riferimento preciso di base: il Sole.
Il connubio tra orologio solare e clessidra sonora era perfetto e completo in una struttura architettonica e funzionale il cui nome, «Organum», è consono alla sua prestazione.
Cassiodoro sembra voglia descrivere questo tipo di orologio nella sua lettera «Varie 46»… «Unum in quo humana sollertia videtur colligi, quod totius caeli noscitur spatia pervagari: aliud ubis solis meatur sine sole cognoscitur etaquis guttantibus horarum spatia terminantur…» datata anno 507 (lett. orig.) «Un (orologio solare) in cui sembra raccolta l’industriosità umana, poiché vediamo descrivere il cammino della volta celeste; l’altro (clessidra interna) in cui il percorso del Sole è conosciuto senza il suo intervento essendo regolato dal gocciolare dell’acqua».
L’orientamento e la scelta dell’ubicazione di questo Organum, in piano presso il fiume, ai piedi dell’arco collinare, nonché testata di allineamento del «Cardo Maximus» è indubbiamente il risultato di un ponderato studio di esperti costruttori e di sapienti astronomi. Anche oggi molte torri sono dei riferimenti alle strade che guidano i punti cardinali verso le metropoli.
Il colle situato alle spalle forniva, di certo, l’acqua per il funzionamento dell’orologio e fungeva anche da padiglione acustico per una maggior udibilità periferica. Una fonte è ancora presente proprio alle spalle dell’organum, si tratta della cosiddetta Fontana del Ferro, altro nome curioso che molto probabilmente deriva dalla storpiatura della dedicazione della fonte alla dea italica Feronia, mentre la raccolta delle sue acque è testimoniata dalla presenza di una cisterna, che dà il nome all’attuale Piazza Cisterna, collocata più a valle della fonte. Alla base della Torre, come chiaramente indicato dall’iconografia rateriana, il fiume Adige raccoglieva il riversarsi dell’acqua usata dai congegni della clessidra.
Due blocchi di pietra rossa trovati durante l’arginatura dell’Adige alla fine del secolo scorso, (1890), nelle vicinanze del Teatro Romano a sostegno del ponte medievale sul Canale dell’Acqua Morta, confermerebbero attraverso un termine tecnico sopra scolpito un probabile legame di testimonianza del nostro segnatempo idraulico. Vien da chiedersi tuttavia come mai nessuna descrizione accompagni la «Iconografia Rateriana» per far luce su questo meraviglioso ed imponente orologio. Si può solamente dedurre che il disegnatore dell’iconografia abbia incluso quello che probabilmente aveva visto su altre mappe o piante precedenti inserendo la denominazione informativa tra le colonne, per lui più che eloquente. Infatti l’’Iconografia Rateriana risale al IX secolo, e a quel tempo si ritiene che l’Organum non esistesse più, in base a quanto si desume dal documento qui riportato.
Pochi secoli prima in Verona soggiornava la reale corte di Teodorico e, dalle epistole lasciateci dal suo noto senatore A. Cassiodoro, oltre a quanto già riportato, troviamo la esigente richiesta di Gundobado, re dei Burgundi, che pretende dal sovrano un orologio come quello ammirato con stupore dai suoi ambasciatori. Al re dei Burgundi verrà dato l’annuncio dell’avvenuto imbarco del prezioso segnatempo completo del gruppo solare idraulico accompagnato da esperti per il montaggio… «Quapropter salutantes gratia consueta per harum partitores illum et illum oblectamenta prudentia vestrae horologia cum suis dispositoribus destinanda…» Varie 46 anno 507.
È facile incorrere in errori ma è altrettanto facile pensare che il re Goto conquistatore di Verona smontasse per puro gioco politico l’«Organum» e lo inviasse in Borgogna, e chissà se oggi in quelle terre vi si trovino dei reperti dell’antico regalo. Così l’Organum tolto dalla sua funzione di segnatempo nella città di Verona, è rimasto raffigurato solamente nella Iconografia Rateriana. Esso viene col tempo dimenticato sino a scomparire dalle memorie dei cittadini lasciando ai posteri come ricordo toponimico, il rione Organo, porta Organo, S. Maria in Organo. A distanza di quindici secoli circa attraverso la documentazione epistolare di Aurelio Cassiodoro, l’iconografia del vescovo Raterio e le logiche deduzioni si può credere che questo illustrato segnatempo «Organum» fosse un monumentale orologio sonoro «per poter dar modo – afferma Re Teodorico – di distinguere le varie ore del giorno e di stabilire ogni momento le loro faccende nel modo più conveniente», anno 507, Lettera Varie 46.
E’ così che al momento della sua costruzione, la chiesa dedicata a Maria Assunta, non era già più adiacente a nessun Organum, ma il nome del meraviglioso edificio scomparso, lasciava ancora tracce di sé in tutto il rione…e continua a farlo anche oggi.
Riferimenti bibliografici:
- L’ICONOGRAFIA RATERIANA – L’archetipo e l’immagine tramandata, ATTI DEL SEMINARIO DI STUDI
6 MAGGIO 2011 MUSEO DI CASTELVECCHIO, a cura di Antonella Arzone e Ettore Napione - Paolo Francesco Forlati , Segnatempo veronensis, 1987
- Biancolini, Notizie storiche, 1749
- Franco Segala, Monasteriorum memoria: abbazie, monasteri e priorati di osservanza benedettina nella città e diocesi di Verona (secc. VII-XXI) : atlante storico-topo-bibliografico, 2004
- S. Gasparri, I duchi longobardi, Roma 1978, pp. 58, 80
- P. Delogu, Il Regno longobardo, in P. Delogu – A. Guillou – G. Ortalli, Longobardi e Bizantini, Roma 1980, pp. 167
- C. Azzara, Spoleto e Benevento e il Regno longobardo d’Italia, in I Longobardi dei Ducati di Spoleto e Benevento. Atti del XVI Congresso, Spoleto-Benevento 2002, Spoleto 2003
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